Pubblicato nel 1997, “Vivere altrove” è la storia di una famiglia italiana che nel secondo dopoguerra si trasferisce nella Germania dell’Est. Un’ottima lettura per capire come ci si sente ad essere stranieri e isolati, e per comprendere la sostanziale differenza tra “integrazione” e “appartenenza”
Vivere altrove (1997) di Marisa Fenoglio, riproposto dall‘Editore Rubbettino nella collana „Che ci faccio qui“ curata da Vito Teti, è un piccolo capolavoro di mediazione interculturaletra due sistemi di vita: quello della protagonista italiana e della sua famiglia e quello di una cittadina tedesca avviata verso la rinascita economica postbellica. Il racconto si svolge su due piani che si intersecano in continuazione. Da una parte la ricostruzione e la ripresa della produzione industriale nella Repubblica federale tedesca. Dall’altra le esperienze quotidianedella protagonista.
Una giovane donna, laureata in Scienze naturali, segue suo marito, un ingegnere, che per incarico del suo datore di lavoro piemontese si trasferisce in Germania per impiantare uno stabilimento a Niederhausen, una cittadina a nord di Francoforte. Qui la protagonista metterà su casa e crescerà tre figli nel doppio isolamento/solitudine, a cui sono esposte le donne immigrate in quanto straniere ed estranee al mondo del lavoro, che limitano i contatti con la nuova società. Isolamento/solitudine che farà dire alla protagonista: „arrivai io stessa a suonare il campanello di casa per sentire come avrebbe suonato se mai qualcuno fosse venuto a trovarmi.“ Il racconto, che copre un arco di trent’anni, si conclude con uno sgangherato tentativo di estorsione tutto italiano nei confronti del direttore dello stabilimento, che finisce per coinvolgere tutta la famiglia.
«Chi legge il romanzo da bilingue coglie con più facilità la maestria con cui l’autrice crea passaggi fluidi dall’italiano al tedesco ed nel ritorno all’italiano»
Ma che cosa rende diverso Vivere altrove da Casa Fenoglio (1995), opera prima di Marisa Fenoglio? Non certo il tono narrante e la schietta semplicità con cui la scrittrice introduce il lettore nella vita di una famiglia ad Alba o nella quotidianità di una famiglia italiana in una cittadina tedesca nel pieno della ricostruzione e agli inizi del miracolo economico tedesco. A rendere diverse le due opere è l’origine della lingua in cui esse sono composte. Mentre in Casa Fenoglio il lettore sente subito che la lingua dell’opera ha la sua origine nella memoria della famiglia e della città di Alba, in Vivere altrove si trova confrontato con un lingua al presente, quasi senza memoria, che vive dell’incontro/scontro con la quotidianità tedesca. In altre parole si tratta di una lingua scritta attraverso gli occhi. Chi va a vivere fuori dalla sua lingua e dalla sua cultura si affida agli occhi per decifrare, sentire le atmosfere, in cui si svolge la sua esistenza, fino a quando non potrà farlo servendosi della lingua del luogo.
A questo punto il lettore si domanderà quale funzione abbiano quei segmenti di lingua tedesca in un testo italiano e perché diventino sempre più frequenti con il progredire del racconto. Si tratta di intarsi linguistici che documentano gli inizi della formazione di una memoria interculturale nella protagonista, di una memoria in cui l’italiano come lingua madre dialoga con il tedesco della vita di tutti giorni. In questo lavoro Marisa Fenoglio si rivela scrittrice interculturale. Chi legge il romanzo da bilingue coglie con più facilità la maestria con cui l’autrice crea passaggi fluidi dall’italiano al tedesco ed nel ritorno all’italiano.
«Io non ero integrata, non lo sarei mai stata, ma non avrei mai voluto essere dei loro, avrei sempre accuratamente tenute le distanze»
Letto in ottica tutta tedesca il romanzo è un documento unico su una cittadina che, ritrovato il benessere, si culla in una normalità di facciata, sperando che il tempo annulli le responsabilità. L’arrivo degli immigrati italiani e dei tedeschi provenienti dall’est ne sarebbe la controprova.
Come tutti i piccoli capolavori di mediazione interculturale Vivere altrove racchiude in sé un’intuizione preziosa per capire come chi vive altrove percepisca se stesso: “Io non ero integrata, non lo sarei mai stata, ma non avrei mai voluto essere dei loro, avrei sempre accuratamente tenute le distanze.” La protagonista rifiuta l’integrazione così come le viene proposta dalla società tedesca e nelle ultimissime righe del racconto vi contrappone il termine tedesco Zugehörigkeit, che è perfettamente traducibile in italiano con “appartenenza”.
Per sua volontà il termine tedesco inserito in un contesto di lingua italiana assume una doppia connotazione. Da una parte sottolinea l’importanza dell’appartenenza etnica all’interno della società tedesca nella fase storica della sua ricomposizione postbellica. Dall’altra chi vive altrove prima o poi scoprirà la differenza esistenziale tra integrazione e appartenenza. Integrazione è un gestire l’immigrazione da parte della società di arrivo, che si riduce a rendere funzionali gli immigrati. Appartenenza è un sentimento/diritto che si crea attraverso le prestazioni dell’immigrato. E quali sarebbero le prestazioni della protagonista? Affidare i propri figli ad un sistema scolastico che non trasmetterà nulla della cultura e della memoria storico culturale della sua provenienza. Un atto di fiducia estrema nei confronti della società di arrivo, proprio per contribuire ad assicurarne il futuro. La protagonista stessa giunge a sentirsi “zugehörig” attraverso le sue prestazioni in un coro di musica classica, dove, come si sa, la fusione delle voci dà vita all’opera.
Riletto ancora una volta dopo più di 20 anni dalla sua prima uscita sento che non ha perso nulla della freschezza che ne determina il tono narrante.
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