Personaggio da romanzo, grande viaggiatore, uno che come Corto Maltese «recita per un pubblico invisibile», l’italo-americano Miller ha «un’autentica adorazione» per la memoria d’Ernest Hemingway, il grande narcisista, che fu a sua volta un personaggio da romanzo. Miller è il protagonista di A dime a dozen, un soldo la dozzina, il nuovo romanzo di Stefano Marelli. Miller e Marelli non saranno d’accordo, ma la verità – da come la vedo io – è che Hemingway, come romanziere e novelliere, non fu mai granché. Vero che nessuno legge più Alberto Moravia, che commentò il suicidio dell’autore di Fiesta con uno sberleffo, come s’indigna Miller nel romanzo. Ma sono altrettanto rari, temo, i lettori di Per chi suona la campana e dei Quarantanove racconti. Bella e bizzarra, in compenso, la storia del loro adoratore.
Raccontato in prima persona da un cabarettista televisivo, amico di Miller e suo semblable, A dime a dozen è come la Divina commedia secondo Leo Longanesi: c’è dentro tutto. C’è la guerra, anzi ce ne sono due, ed entrambe mondiali, una più crudele e splatter dell’altra. C’è l’Africa (il deserto, se non le sue verdi colline). Ci sono gli scavi archeologici. C’è una grande storia d’amore e morte, come nemmeno Hemingway (ma piuttosto Scott Fitzgerald) avrebbe potuto scrivere. C’è la città natale di Hemingway (Oak Park, un sobborgo di Chicago, Illinois) e c’è la sua tomba (a Ketchum, Idaho, gran territorio di caccia all’opossum). Ci sono i liberal americani già fortemente coglioni nei primi sixties. C’è l’autostop e ci sono i motel, le automobili scassate e i sacchi a pelo come nelle storie di Jack Kerouac. C’è Parigi, con le sue remote avanguardie, gli americani squattrinati, l’atmosfera un po’ fasulla (doveva essere un po’ fasulla già negli anni venti) da Midnight in Paris, il peggior film di Woody Allen (ma onore al merito: da qualche anno tutti i suoi film sono orribili). C’è il Parco di Yellowstone (con picnic a piè di lista) come nei cartoni animati di Yoghi e Bubu. C’è il racconto nel racconto (e il racconto nel racconto nel racconto) à la Joseph Conrad. A dime a dozen è decisamente «la storia di uno che racconta la storia di uno che racconta una storia» (come diceva Bill Burroughs). È un grande feuilleton con lacrime, risate e inediti di Hemingway.
Narrazione a strati, con un giusto esotismo da vecchio reportage, A dime a dozen è inoltre un romanzo sulla perdita: spariscono le persone care, svanisce un’epoca, poi un’altra e un’altra ancora. Peggio di tutto: la letteratura sta passando al nemico, a Moravia, alla politica. Miller e il suo amico cabarettista non sono semplicemente due narratori. Sono testimoni di questa vasta perdita che, se da un lato impoverisce il mondo, dall’altro arricchisce il database (per dire così) dei testimoni solitari, che hanno sempre più storie da raccontare (per lo più roba triste, ma non solo). Stefano Marelli mette in ghingheri tutte queste storie con penna divertita e un po’ barocca (che ricorda più i dialoghi di Hugo Pratt che le frasi telegrafiche di Hemingway).
Come Miller, anche Marelli è naturalmente un fan (anzi «un autentico adoratore») dell’autore di Morte nel pomeriggio, benché la sua scrittura sembri ispirarsi, più che a Hemingway, ai consigli che l’agente letterario di Jerry Westerby, il gazzettiere-spia protagonista dell’Onorevole scolaro di John Le Carré, elargiva al suo cliente: «Vacci piano, Jerry, con tutta quella roba alla Hemingway. Tutta quella bellezza sotto pressione, quell’amore da scoglionato. Non piace a nessuno, secondo me. L’hanno detto tutti. Posso dirti una cosa? Frasi più lunghe. È ora che voi giornalisti passiate ai romanzi, scrivete troppo corto. Frasi brevi, paragrafi brevi, capitoli brevi. Vedete il numero di battute, anziché le pagine intere. Anche Hemingway faceva così. Sempre a cercar di scrivere romanzi sul retro d’una bustina di fiammiferi. Allargate i vostri orizzonti, dico io».
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