“Sono sfortunatamente un viaggiatore eccessivo, viviamo tutti vite frammentate e complesse ma l’editoria alleva polli da semplicità”. Paolo Ferrucci dialoga con Marco Ciriello
“Certo, il lettore deve lavorare abbastanza, per ricucire i personaggi, vedere… riconoscerli quando si ripresentano, sciogliere i dialoghi in cui non ci sono attribuzioni per le frasi, questo è proprio un lavoro che lei ha voluto, immagino, far fare al lettore”. (Il conduttore della trasmissione Fahrenheit a Marco Ciriello, Radiotre, dicembre 2020)
Dopo aver letto l’ultimo romanzo di Marco Ciriello, I leggeri di Nairobi, ho sentito un’urgenza, quella di parlarne con lui. Troppa l’affinità con lo spirito della narrazione e con lo stato delle cose, come pure il risveglio di correnti sotterranee che non si sono ancora sopite. Troppe le riflessioni che emergono.
PAOLO FERRUCCI – Marco, eccomi a parlare con te del tuo ultimo romanzo, finalmente, perché ne sentivo una certa urgenza. Dopo aver ascoltato la tua intervista a Fahrenheit di Radiotre mi è emersa una serie di domande, anche considerando ciò che il romanzo mi ha smosso dentro. Intanto partiamo dai punti sinottici, elencati nel sito di Fahrenheit: “La storia di un maratoneta ragazzino, Muhammad Ali Okayo, che – rischiando di scendere sotto le due ore alle Olimpiadi – viene inseguito dalla multinazionale NK per farne il testimonial delle sue nuove fantastiche scarpe, e dal governo cinese che lo vuole naturalizzare per vincere a Tokyo2020. Con Ali ci sono un medico italiano – fuggito da Bollywood – figlio dell’uomo che curò Abebe Bikila, un tennista americano che dopo l’undici settembre è andato in missione in Afghanistan, un giornalista erede di Hunter Thompson, un lottatore di sumo che fonda la prima squadra ciclistica keniana, un sosia nero di Hemingway, i registi Zemeckis e Scorsese, il presidente cinese Xi Jinping, e sopra di loro c’è il primo viaggiatore abusivo dello spazio…”.
Bene, voglio cominciare dall’osservazione che il conduttore ti ha fatto verso la fine, riportata qui in epigrafe (“il lettore deve lavorare abbastanza” ecc.),per raccontarti questo. In seguito ad alcuni anni di depressione, mi sono trovato per molto tempo a non riuscire più a leggere un libro: la testa fuggiva via dalla pagina dopo poche righe, cogliendo ogni spunto per allontanarsi dal tracciato della lettura, per agganciarsi ad altre idee e immagini, ad altre situazioni o ricordi, seguendo ogni analogia che stava in agguato. Quindi ogni mio tentativo di lettura era diventato un lavoro, non un piacere, era uno sforzo per completare un esercizio. Piano piano ho recuperato, ma non completamente, e ho ancora le mie difficoltà. Ora, quando il conduttore osserva che col tuo libro hai voluto far fare un lavoro al lettore, io mi sento spiazzato, perché col tuo romanzo la mia esperienza è di una lettura che ti porta con sé come una corrente, senza intoppi, senza nemmeno deviazioni cognitive, perché è tutto talmente legato e coeso, connesso e necessario che ti conduce per mano senza farti sentire i sobbalzi sulla strada, senza farti domandare cosa significa questo o cosa significa quello, perché è tutto naturale. Un percorso ideale, senza fatica, come un liberatorio ritorno all’antico.
MARCO CIRIELLO – Ho l’impressione che tutta la narrativa italiana sia basata su un timore: quello della complessità, a forza di semplificare non è rimasto nulla. Viviamo tutti vite frammentate e complesse ma l’editoria alleva polli da semplicità. Nessuno legge, si consulta, e quindi il giudizio dell’intervistatore di Radiotre – che suo malgrado diventa la voce che alimenta il danno – era viziato dal non aver evidentemente letto il libro, che non è difficile ma semplicemente complesso: ci sono un mucchio di biografie, tanti salti tra posti – sono sfortunatamente per la narrativa italiana un viaggiatore eccessivo – e credo diverse pagine dove si ride. È sicuramente anomalo per i canoni italiani: perché parla di posti lontani, di uomini e donne lontane, e non avendo un commissario a spiegare tutto quello che accade il lettore medio rimane spiazzato. Ma, come conferma la tua lettura, si vive smarrendo ma poi tutto si ritrova: c’è un congegno meccanico che tiene tutto, riconduce allo scrittore keniano che scrive la storia in carcere e poi se la ritrova fuori, in una sovrapposizione che è quella che ci capita spesso di vivere. Poi c’è il paradosso, ormai tutti guardano le serie tivù dove ci sono tanti personaggi, trame complesse, ma dai romanzi italiani si pretende la semplicità diaristica, con al massimo il peso di una famiglia, con un membro per capitolo. A me tutto questo non interessa, e non è che ho scritto un romanzo che contenga chissà quali invenzioni: ha solo un pensiero, forse complesso, al quale ci si sta disabituando. Non a caso i paragoni che si son fatti sono con romanzi che esistono, si son letti, avevano tanti personaggi, forse il mio ne ha qualcuno in più, ma tutto sommato non mi pare così lontano da un Salgari, che io ho letto da bambino.PAOLO FERRUCCI – Leggerti mi ha fatto ricordare quando da ragazzo leggevo I miti greci di Robert Graves. Qui ti ho pensato come un vero e proprio mitografo moderno, che riempie di personaggi (“allenatori, giornalisti, radiofonici, uomini politici, scrittori”, come sintetizza il conduttore di Fahrenheit) lo spazio reale e ideale di un’Africa dove si mescolano vicende emblematiche, corrusche e opache a un tempo, tutte contemporanee, che rendono in scioltezza la complessità eterna delle vicende umane. E lo fanno con lo stesso vigore e la stessa naturalezza con cui si sviluppano i miti dell’antichità che Graves racconta con la chiarezza disinvolta con cui li racconti tu. Una naturalezza che non porta a porsi domande, ad esempio, sul perché Alighiero Boetti è il medico che ha operato di appendicite Abebe Bikila, William Vollmann è il proprietario della multinazionale NK, e cosa c’entri gente come Martin Scorsese, Keith Richards, Harvey Weinstein, Tom Waits eccetera. Perché questa è mitopoiesi, una cosa antichissima, che è al cuore della letteratura. Una cosa che entra senza chiedere permesso, arriva e basta.
MARCO CIRIELLO – Ma infatti io pensavo che fosse normale, e mi piaceva che il lettore per un attimo si ritrovasse il primo clandestino nello spazio col nome di Basquiat, il gioco era conservare l’anima della vita citata cambiandole biografia. Dovlatov – che è un singolarissimo scrittore russo – vende pubblicità spaziali al capo di una multinazionale americana. Rimane russo, ma invece di vendere la sua fantasia scritta ne vende una via satellite. È un gioco, è come lanciare i dadi, ma al posto dei dadi ci sono le vite che mi son piaciute. Poi c’è anche chi fa se stesso come Scorsese, Zemeckis e Waits. Proprio perché Scorsese è un nuovo Zeus, riscrive la vita, e questo viene dal fatto che io sono convinto che il cinema sia opposizione alla morte, perché contiene un altro tempo, che è eterno o quasi, quindi capisci che chi fa grande cinema è dio perché non muore mai, anzi entra in una ripetizione che si rinnova negli occhi di chi guarda e nella memoria di chi ricorda. Oggi De Sica o Rossellini o Risi mica sono morti? Ci stanno di fianco, ci soccorrono, come le vite dei santi nel passato. Almeno per me, potrei dire che faccio tutto questo perché credo nella religione del cinema, solo l’immagine crea l’immortalità. Il resto viene normale, ragiona per immagini e sovrapposizioni, I leggeri di Nairobi sono una realtà possibile e laterale, che mescola persone vere e proprie e altre provvisoriamente ancora fittizie, e insieme sono una nuova realtà. Il romanzo è un fiume che corre, dove ci passano cose che se stai fermo non riconosci, se invece, come è successo a te, ci sei dentro: ti sembra tutto normale.
PAOLO FERRUCCI – Mi colpisce quando parli del perché un corridore continua anche quando è stanco e vorrebbe fermarsi: “non serve una spinta fisica, ne basta una emotiva dovuta a un dente di luce che modella una familiarità, un motivo in più per non fermarsi, una luccicante anomalia che ti faccia resistere alla sopraffazione del corpo, una cosa tanto lontana e tanto profonda eppure mia, per una appartenenza remota, per un attimo irrecuperabile”. La sopraffazione del corpo, quella che tante volte abbiamo combattuto inconsapevolmente. E ho rivisto quello srotolarsi ingiustificato di pensieri e ricordi improvvisi che da anni mi perseguita, aprendo le porte alle ruminazioni mentali: “quanta mediocrità e avversione e pericoli sconosciuti che ci stanno intorno senza che noi riusciamo a vederli, e che ora mi sono tutti chiarissimi: un lungo elenco di persone, azioni, eventi e cose mediocri, avverse e pericolose, fino a quest’ultima che mi porta a questa rabbia impotente di vedere tutto chiarissimo senza poter fare nulla”.
MARCO CIRIELLO – Per anni ho corso, ora cammino, quindi ho solo descritto quello che accadeva a me e che chiamavo la fase mulo, dopo la quale non sentivo più niente e potevo andare oltre le due ore di corsa. Poi questo libro ha una gestazione lunga, ne ho scritto altri in mezzo, ma ho cominciato a pensarlo un giorno nel 2010 in Sudafrica andando a una conferenza stampa di Kobe Bryant a Soweto. La Nike aveva costruito campi, ambulatori, e palestre e veniva ad inaugurare Bryant, ma noi occidentali eravamo in secondo piano, prima lui avrebbe dovuto parlare sul tetto dell’edificio con le tivù e i giornali cinesi, noi eravamo il mercato vecchio, mentre la Cina e l’Asia quello nuovo. E in quell’attesa ho sentito tutta la distanza tra vecchio e nuovo mondo: eravamo in Africa dove la Nike aveva costruito un villaggio sportivo per parlare a un nuovo mercato. E ho cominciato a pensare a come raccontare questa impressione, che era poi l’appartenere a un posto vecchio, a un mercato superato. Tutto il libro è una corsa lunghissima, fatta negli anni successivi, scrivendo altro e andando, appunto, in Kenya, Costa D’Avorio, Nigeria, Senegal, Egitto, Algeria, etc. per questo c’è anche la Parigi-Dakar e mille altre cose, perché girando per altri lavori a un certo punto ho superato la fase mulo anche nel pensiero ed è venuto I leggeri di Nairobi. All’inizio c’era il basket, e dal Sudafrica andavo in Cina con Bryant che diventava cinese, ma poi è cambiato tutto. Ho scelto il ragazzino che correva.
PAOLO FERRUCCI – Mi piace molto anche l’ultima parte della narrazione, in cui un unico flusso di pensiero procede per segmenti, che si sospendono con una virgola rimasta aperta, poi riprendono dalle stesse parole per proseguire con un’altra visuale. Lo scrittore e la scrittura si rivelano il centro, il motore, il senso di questa specie di spirale narrativa.
MARCO CIRIELLO – Quando scrivo prima di tutto mi devo divertire, non appartengo a quelli che devono isolarsi, soffrire, struggersi, chiudersi, io scrivo ovunque, l’importante è che sia divertente. Per divertirmi mi pongo ostacoli, in questo caso mi son detto devono essere tre parti con tre punti di vista diversi, quindi la prima parte è in terza persona e ci sono solo storie, che appunto il lettore si chiede ma come cazzo sono unite? Nella seconda parte ci sono solo dialoghi, che spiegano quelle storie e le connettono, e nella terza parte c’è il monologo, un monologo joyciano, dove tutti confessano, e confessando diventano una voce sola, tanto che la parola finale della confessione che precede è la parola iniziale di quella che segue, una staffetta di respiro e pensieri, capace di creare una continuità e raccontare anche tutto quello che non era stato detto nelle parti precedenti. Facile no?
PAOLO FERRUCCI – Verso la fine, mi sono soffermato a pagina 133: “c’era un clima da ultimi giorni sulla terra, come raccontai in uno dei reportage poi raccolti in un libro, non l’ho mai più riletto per non macerarmi nella compagnia vociante di scomparsi, di caduti, di assentati anche nel dopo corsa, non credo sia rimasto nessuno di quelli che erano amici e non li voglio contare, non voglio contare i morti né i giorni, perché tutti i miei ricordi sono un lungo elenco di gente scomparsa, finita sottoterra o chissà dove”. Ecco, io qui ho dovuto sospendere, rileggere e restare in contemplazione. Considerato che a diciott’anni mi bucavo – un mese dopo l’esame di maturità finii dentro, per dire – e che quasi tutti gli amici e le amiche del tempo sono morti, chi per overdose, chi schiantandosi in auto o in moto, chi annegato nella vasca, chi suicida in carcere, chi fulminato da malattie, mi sono trovato a proseguire negli anni in un vuoto di strade bruciate, coi loro fantasmi che a volte ritornano e con la Colpa ad aleggiarmi intorno. Cosa potrebbero dirmi l’ingegner Okayo, il dottor Boetti, il cinico Vollmann, e Frank “Big Difference” Ford, e lo scrittore Norman Ngugi, per aiutarmi?
MARCO CIRIELLO – Beh, ti hanno già aiutato. Ti sono apparsi, ti sei specchiato, in ognuno di loro hai trovato la disperazione di quel tuo tempo lontano, e anche una consolazione, ti hanno detto che puoi scavalcare quel tempo. Vedi, tutti quei personaggi hanno un piccolo specchio di verità, nel quale si guardano, per distogliere lo sguardo dalla morte. Alcuni posti dell’Africa sono i punti dove è più facile sentire la morte, l’Occidente passa il tempo a rimuovere la morte e a banalizzare il mistero, per poi accorgersi che crea un vuoto maggiore. L’Africa è l’ultimo posto dove la morte è bambina e il mistero è vecchissimo. A meno che tu non sia Briatore che usa il Kenya come una casa al mare, a meno che tu non viva in un villaggio turistico, l’Africa intesa come stato d’animo prima che come continente, ti costringe a fare i conti con la rimozione occidentale: non puoi rimuovere animali, malattie, degrado, guerre, ma devi attraversarle, puoi chiudere gli occhi una volta, due, tre, puoi tapparti il naso per un po’, ma alla fine dovrai fare i conti con il mondo, e quel mondo ti costringe a riflettere sul colonialismo, che oggi è differente, è di tipo economico, come racconto nel romanzo, oggi tutto è comprabile: dalla nazionalità alla terra, senza nemmeno bisogno delle guerre. È un colonialismo indolore, che realizza la profezia di Gillo Pontecorvo in Queimada.
PAOLO FERRUCCI – A conclusione dell’intervista a Fahrenheit, al conduttore tu hai fatto una domanda molto diretta, quasi impertinente: “Lei non trova noiosi i romanzi con due personaggi, che ci raccontano le vite che già viviamo?”. “Dipende, dipende, dipende dal romanzo, dipende da molti altri fattori”, è stata l’ovvia risposta, “ma va bene far lavorare il lettore, non è questo che sia in dubbio”. Be’, fossi stato io avrei risposto “Sì, mi annoiano, perché l’ombelicalismo più o meno minimalista in effetti non m’interessa. Io amo la magia della narrazione”.
MARCO CIRIELLO – Ormai divido i romanzi italiani in romanzi con il certificato medico e romanzi con lo stato di famiglia, e spesso i due fenomeni si presentano insieme. Dovrei parlare per giorni su questo disastro, sul fatto che ho l’impressione che questi non siano capaci di inventare nulla, non fanno fiction perché non sono capaci e hanno fatto della loro incapacità una regola. Quindi giù l’autofiction. Tanto che poi, avendo saputo tutto, le interviste a questi scrittori si riducono a delle constatazioni immobiliari. Ogni volta penso a questa storia – che se non fosse vera sarebbe meravigliosa per il mio concetto di verità labile ma utile di più –: Laurence Olivier su set de Il maratoneta vedendo Dustin Hoffman sfinirsi gli chiede “ma perché corri così?”. E lui risponde: “devo apparire stanco dopo una corsa e Olivier replica: “non ti basta recitare?” E questo ci porta all’altro grande problema: i gialli. Oggi i giallisti di giallo hanno solo l’evocazione, nel senso che sono le nuove pagine gialle: vuoi sapere a Genova se c’è ancora un ristorante dove mangiasti con quella che sembrava la donna della tua vita? Basta leggere il commissario che agisce a Genova. Vuoi sapere a Napoli che c’era prima nel palazzo dei tuoi nonni? E che ci vuole: romanzo giallo napoletano e zac! Vuoi sapere se a Bari c’è del buon sushi, se a Salerno ci sono gelaterie, e via così, e non sto disprezzando, anzi, abbiamo una florida narrativa commercial-turistica, infatti poi nascono gli itinerari dei commissari, i ristoranti, c’è un mercato, e quindi se poi l’indagine fa schifo, se il commissario non funziona, che importa? Hai già avuto tutte queste notizie.
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