Solo nell’Unione europea ci lavorano più di 11 mila persone. È un settore che vale più del 6% del Pil ed ha l’appoggio di molte organizzazioni internazionali: dall’Unesco, all’Unctad, all’Ue. A livello globale vale 2.250 miliardi di dollari (di cui 709 nella sola Europa), impegna quasi 30 milioni di persone, più degli occupati dell’industria automobilistica statunitense, europea e giapponese messe insieme o di un Paese come la Corea del Sud. E’ l’Orange Economy, l’economia arancione, basata sulla creatività, che è stata oggetto di attenzione dalla politica prima in Australia e poi in Gran Bretagna dove è stato uno dei cavalli di battaglia del governo Labour di Tony Blair e dove ancora oggi può contare su un Ministro con competenze Digitale e Cultura ed è considerato uno dei settori strategici per la Gran Bretagna post Brexit. In Italia? Non si è ancora capito che la questione creativa è essenziale alla competitività e alla qualità sociale delle nostre città, delle nostre regioni e del nostro Paese. Colpa delle istituzioni, che non le hanno dato un riconoscimento esplicito – definire creativa una impresa non è facile- ma anche delle stesse imprese creative, che fino a questo momento non hanno mai parlato un linguaggio unico. Del resto anche un fan appassionato della creatività, l’urbanista Richard Florida, ha individuato i punti critici di quella fetta di economia dal grande potere trasformativo. Ma cos’è di preciso la creatività e cosa si può fare perché l’Italia cominci a prenderla sul serio? L’abbiamo chiesto a Gian Paolo Manzella (Roma, ’65), consigliere della Regione Lazio, funzionario della Banca europea per gli investimenti, autore di un libro, pubblicato di recente da Rubbettino, intitolato: Economia arancione – storie e politiche della creatività (160 pagine).
Intanto perché economia arancione?
L’arancione è considerato il colore della creatività. Ed è per questo che uno studio della Banca Interamericana di Sviluppo lo ha utilizzato per descrivere le industrie legate alla cultura: quelle che vanno dal design all’architettura, dal cinema al software, dalla moda alle tecnologie applicate ai beni culturali, all’editoria. Ho pensato fosse un accostamento originale, capace di catturare l’attenzione su questo settore dell’economia e che meritasse di essere il titolo di questo libro. Per me è anche appropriato alla situazione italiana. Perché, effettivamente, se parliamo di politiche per la creatività, siamo all’alba.
In che senso?
L’Italia vive una situazione un po’ paradossale. È senza dubbi una delle patrie, se non la patria, della creatività. La Firenze dei Medici e, in tempi moderni, l’esperienza di Olivetti sono dei riferimenti quasi costanti per chi si occupa del tema. E, nonostante queste esperienze, il nostro Paese non ha ancora preso sul serio la creatività. A differenza di altri Paesi non ha ancora sviluppato un discorso pubblico sui creativi, non ha creato organismi amministrativi che seguano questo tema, non ha una politica per diffondere i valori della impresa creativa tra la cittadinanza. In una parola, non ha ancora definito una politica di lungo respiro sulla creatività. Parlo delle scuole dove si dovrebbe insegnare ai nostri ragazzi ad orientarsi tra nuove tecnologie e nuovi linguaggi, ma alludo anche alla creazione delle basi per innestare creatività nelle imprese. Il libro vuole fare questo: promuovere un dibattito pubblico che porti ad un allineamento italiano alle migliori pratiche.
Definire il settore creativo, l’ammetterà, non è cosa da poco. E sebbene nel libro si stili una serie di categorie creative, il discorso sulla creatività rimane pieno di incognite, a volte fumoso.
Ecco penso che noi dobbiamo proprio eliminare questo fumo. E prendere strade il più possibile semplici. Le categorie delle ‘industrie creative’ sono oramai definite a livello internazionale, inutile stare a girarci attorno o trovare ‘vie italiane’. Sono un insieme di settori – alcuni li abbiamo visti prima – che sino a pochi anni fa andavano ognuno per proprio conto e che oggi sono considerati insieme da politici, economisti, statistici, finanzieri. Già questo spiega alcune difficoltà. La creatività è, poi, una categoria in sé disomogenea, sia perché ne fanno parte operatori del teatro e del software, sia perché, nello stesso settore ci sono grandi e piccole realtà. Sono nel perimetro della Economia Arancione sia Gucci o Fendi, sia un piccolo produttore di cappelli o accessori per la moda.
Cosa fare perché la creatività non appaia più come una scatola vuota, una cosa per fighetti?
Ci vuole un grande sforzo di comunicazione che faccia capire l’enorme valore economico delle industrie creative, l’importanza della creatività per l’identità italiana, che racconti in forme comprensibili e immediate l’impatto che può avere per l’impresa aprirsi alla creatività. In questo senso lavorerei ad un accordo con la Rai per raccontare questa realtà, ad un piano di formazione al pensiero e ai mestieri creativi a partire dalle scuole.
La Buona Scuola può spianare la strada in Italia ad una sensibilità diversa nei confronti della creatività?
Guardi la Buona Scuola contiene continui riferimenti alla creatività. Basta rileggersi l’incipit: “All’Italia serve una buona scuola che sviluppi nei ragazzi la curiosità per il mondo e il pensiero critico. Che stimoli la loro creatività e li incoraggi a fare cose con le proprie mani nell’era digitale”. Dopo questo avvio così esplicito il suffisso “creativ” compare 16 volte. E’ il segno di una volontà molto chiara di orientare verso questo obiettivo l’impianto della riforma. Pensa che in Italia ci siano state esperienze utili da prendere come modello? Ci sono programmi come Puglia creativa che sono stati dei battistrada su questo. Nel Lazio sia la Provincia di Roma, sia la Regione Lazio hanno lavorato in questo senso. E poi ci sono molte esperienze sparse, spesso finanziate dalle Fondazioni. Ma, allargando lo sguardo, ed uscendo da programmi dedicati in senso stretto alla creatività, penso ad una città come Torino che, forse, comincia ad attirare turisti perché si è reinventata con un occhio attento alla creatività: dalla rivisitazione del Museo Egizio, ai Festival, ai centri di produzione culturale, al Politecnico. Quando parliamo di Milano e della sua attuale forma ci riferiamo anche alle startup, al rilancio della Settimana della moda, agli spazi diffusi per fare cultura e impresa come il Base. In molti casi le città e i territori si stanno ridefinendo attorno a valori legati alla creatività, magari senza dirlo.
Tornando all’impresa creativa, lei sostiene che essa genera ricchezza perché attiva una trasformazione, quindi un circuito virtuoso. Ed è più resistente alle fasi di crisi.
Esatto. C’è un doppio valore nelle imprese creative. Prima di tutto quello del settore in sé. E, poi, quello legato alle ricadute. Gli studi dicono che un’impresa tradizionale – che collabora con un designer, un esperto di vendite on line, un pubblicitario, un esperto di grafica e comunicazione – è destinata ad aumentare il suo ‘parco’ clienti, a cambiare il proprio modo di lavorare e stare sui mercati. Per questo motivo penso che dobbiamo inserire nel nostro ordinamento i voucher, strumenti che permettano alle imprese tradizionali di comprare servizi dai creativi per realizzare progetti innovativi. Un gioco vantaggioso per tutti: vincono le imprese tradizionali, vincono i creativi che lavorano, vince la cultura imprenditoriale italiana che andrebbe verso la multidisciplinarietà. Ci si deve lavorare. Ci sono state proposte che andrebbero riprese. A livello cittadino e regionale, poi, dobbiamo promuovere il più possibile spazi per la creatività. Penso a incubatori, acceleratori, spazi di co-working. In tutto il mondo sono il segmento del settore immobiliare che sta crescendo con i ritmi più elevati. Dobbiamo stare in quest’onda. Le nostre città debbono avere dei punti di riferimento in questo senso.
Cioè?
Luoghi in cui i giovani si incontrino per provare nuove tecnologie, sviluppare progetti insieme, avere assistenza per imparare a fare impresa. Vede a me sembra una cosa molto interessante quella che sta accadendo in molte città del mondo.
A cosa si ferisce?
Parlo del recupero di edifici industriali abbandonati e della loro della trasformazione in spazi di creatività. Quasi un modo per dire: il mondo sta cambiando e noi lo stiamo seguendo.
Lo scrive ad un certo punto: “Giovani professionisti della classe creativa si muovono in quartieri degradati, ne avviano la valorizzazione e li segnalano a potenziali finanziatori, l’economia comincia a circolare”. Facile a dirsi, ma come accendere l’interesse dei finanziatori pubblici e privati in modo concreto?
La leva pubblica può aiutare e regolare questi sviluppi. Come? Innescando forme di riqualificazione, sia finanziando spazi di creatività capaci di attrarre, sia cercando di rendere raggiungibili quelli più degradati. Molte periferie potrebbero avere nuova vita se coinvolte da politiche di questo tipo.
A chi affidare la difesa e la promozione delle imprese creative in Italia?
Sicuramente la questione è se affidarle al MISE o al MIBACT. Ma è tema che mi interessa poco. Importante è dotare l’amministrazione di un luogo per la creatività. Bisogna fare collaborazioni con l’ISTAT per calcolare quanto pesano le industrie e seguirne le evoluzioni, redigere rapporti, preparare una politica di comunicazione, dare indicazioni al livello regionale. Costruire un discorso pubblico sulla creatività e dargli le gambe amministrative, insomma. Poi chi lo fa lo fa.
La creatività salverà la Pubblica amministrazione?
Penso sia una delle piste di lavoro più interessanti dei prossimi anni, sia per quanto riguarda il suo modo di lavorare al suo interno, sia sul piano dei rapporti con i cittadini. Pensiamo a quanto siano importanti il design per rendere i servizi pubblici sempre più efficaci o la grafica e l’uso dei fumetti per ‘far passare’ messaggi di interesse pubblico. O alle incredibili applicazioni dei videogiochi in ambito medico per rallentare malattie degenerative, aiutare processi di riabilitazione, aiutare i bambini in lunga degenza a seguire le cure.
Se le dico creatività e piccoli comuni cosa mi risponde?
E’ nella creatività una delle grandi chiavi della loro offerta turistica. Noi siamo un Paese a patrimonio culturale diffuso. E le tecnologie applicate ai beni culturali in molti casi stanno cambiando la percezione che abbiamo del nostro Patrimonio. Penso solo alla rivoluzione del Museo Egizio qualche anno fa e oggi ai successi turistici del Foro di Cesare e del Foro di Augusto a Roma. Non sono solo i piccoli comuni ad essere interessati, ma è una esperienza che, ad esempio, Cerveteri ha appena avviato per il suo patrimonio etrusco. E’ una strada piena di possibilità. E penso che, nell’anno europeo del patrimonio culturale, a livello nazionale dovremmo lavorare ad un Fondo nazionale per aiutare questi comuni ad entrare nel mondo delle tecnologie applicate ai beni culturali. Servirebbe anche assistenza tecnica. Avremmo cittadine più aperte all’innovazione, un turismo più diffuso e attratto da nuovi itinerari, startup ed imprese innovative che vedrebbero aprirsi possibilità di mercato. Un gioco a somma positiva.
Matera capitale della cultura europea 2019. Come non sprecare questa opportunità?
Penso che il modello della Capitale sia giustissimo, sia per la competizione che attiva, sia perché costringe a focalizzarsi su questo tema. È una occasione per approfondire queste tematiche e obbligare l’Italia a fermarsi sulla creatività.
Dia un consiglio a chi la sta leggendo: quale potrebbe essere un’impresa creativa su cui puntare?
La creatività è fortemente legata al territorio. Bisogna leggere le sue vocazioni e poi provare a reinventarle criticamente. Se Parma è città creativa del Food mi inventerei qualcosa in quel settore, se a Roma ci sono settori chiave come la sanità e la pubblica amministrazione proverei a lavorare per portare un po’ di creatività al loro interno o per migliorare e innovare questi settori
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