All’indomani della conquista dell’Egitto (1517) gli ottomani, preoccupati come (e forse più) dei veneziani, dall’intrusione dei portoghesi nell’Oceano Indiano che infrangeva il monopolio sul commercio delle spezie, le preziose “scintille d’Oriente”, decisero di riaprire l’antico Traianos potamos, il passaggio tra il Mediterraneo e il Mar Rosso già operativo in epoca faraonica, romana e bizantina. Insomma, il “nonno” dell’attuale Canale di Suez.
Come riportano nei loro diari i viaggiatori (o agenti segreti veneziani? Non lo sappiamo…), tra il Cinquecento e il Seicento, i sovrani di Costantinopoli cercarono a più riprese di ripristinare l’antica idrovia. Nel 1529 Alvise Roncignotto segnalò al governo dogale che Pargali Ibrahim Pascià, gran vizir di Solimano il Magnifico, aveva dato inizio agli scavi sull’antico canale e in un altro viaggio sull’Istmo, tra il 1532 e il 1533, vide circa 12mila uomini al lavoro. Con la tragica morte di Ibrahim, giustiziato dal sospettoso sultano nel 1536, il progetto venne sospeso, ma non accantonato. Nella sua relazione del 1576 il vicentino Filippo Pigafetta — parente di Antonio, l’avventuroso compagno e biografo di Magellano — accennò al successivo tentativo di Sinàm Bassà, ammiraglio del sultano Selim: «Di scavare una gran fossa a fine di condurre più lesto, et con più corta strada le artiglierie, i legnami, le munitioni da guerra, et le altre cose al Suez, né prima (come hora si fa) scaricarle in Alessandria, et indi menarle al Cairo su per il fiume, al di là della terra al Suez».
Tutto s’interruppe, secondo Pigafetta, apparentemente perché i turchi temettero — riprendendo la leggenda risalente all’incolpevole Aristotele — che le acque del Mar Rosso fossero superiori di circa dieci metri a quelle del Mediterraneo. Molto probabilmente per il vicentino si trattava — confutando così l’idea del dislivello — di una pietosa inventione dei turchi intimoriti invece dalle difficoltà tecniche e dagli enormi costi.
Ben documentata è invece l’ipotesi del taglio dell’Istmo immaginata pochi anni dopo da una figura romanzesca: El Ulug Alì, per i cristiani più semplicemente Occhialì o Uccialì. Un nome pesante che fece sobbalzare i potenti di tutta Europa. Non a torto. Come si evince dalla bella biografia di Mirella Mafrici (Uccialì. Dalla Croce alla Mezzaluna. Un grande ammiraglio ottomano nel Mediterraneo del Cinquecento, Rubettino), il personaggio è decisamente interessante, persino straordinario.
Il suo vero nome era Giovan Dionigi Galeni ed era nato nella poverissima Calabria attorno al 1519. La famiglia lo aveva destinato alla vita monacale quando venne catturato nell’ennesima scorreria barbaresca guidata da Khayr al-Din (il celebre Barbarossa, bey d’Algeri) e messo al remo. Passato al servizio in casa uccise un altro schiavo: la svolta decisiva; per convenienza o convinzione (chissà?), il ragazzo si convertì rapidamente alla fede islamica ed entrò nelle grazie dei suoi padroni. Al tempo nulla di strano. Come ricorda l’autrice, “farsi turco” — cambiando fede, nome, abito e abitudini alimentari — era prassi diffusa e consentiva ai rinnegati «la possibilità di un’ascesa sociale, determinata da una sostanziale differenza tra due mondi: quello occidentale che, caratterizzato da una scala di stratificazioni dalla scarsa mobilità, conferiva un grandissimo valore alla nascita e al sangue, si contrapponeva quello turco che, incentrato sul sultano con potere illimitato e sulla massa di sudditi a lui sottomessi, consentiva a uomini capaci di muoversi con abilità e scaltrezza nella piramide sociale di raggiungere dai livelli più bassi le più alte cariche dello Stato e vivere molto meglio di un cristiano nel Mezzogiorno d’Italia».
Fu questo il caso di Dionigi alias Uccialì; diventato musulmano si diede alla guerra di corsa e fece una rapida carriera: dopo aver sposato la figlia di uno dei rais si unì a Dragut — beniamino e poi successore di Khayr al-Din — distinguendosi per abilità e coraggio e contribuendo a trasformare il Mediterraneo «in un mare proibito alla navigazione per gli europei». Iniziò allora, come narra con penna felice la Mafrici, una formidabile ascesa: per aver flagellato le coste cristiane, puntando non solo sulla natia Calabria e sulla Sicilia ma insidiando persino la Liguria e il Nizzardo sabaudo, il mancato monaco divenne generalissimo del pascialato d’Algeria, governatore di Tripoli poi di Algeri. Nel 1571 prese parte alla battaglia di Lepanto e fu l’unico tra i comandanti della flotta turca a non uscirne sconfitto. Anzi. Per aver conquistato nello scontro lo stendardo dei Cavalieri di Malta, Selim II lo nominò kapudan, Supremo ammiraglio del mare, con il difficile compito di ricostruire, all’indomani della disfatta, la marina sultaniale.
Dopo molte imprese, culminate con una vittoria contro gli spagnoli e la riconquista di Tunisi, l’avventuroso corsaro — ormai giunto ai vertici dell’impero come primo navarca — venne incaricato dal sultano di riaprire l’idrovia egiziana. Come sopra accennato, la notizia fece enorme scalpore nelle cancellerie europee. La fama del personaggio era tale che nel luglio del 1586 l’ambasciatore francese sul Bosforo, Savary de Lancosme, scrisse allarmato al re Enrico III di una visita di El Ulug Alì ad Alessandria. Secondo il diplomatico, l’ammiraglio si era recato sul Nilo per verificare la possibilità di: «un’impresa impossibile, cioè di aprire un canale dal Cairo ad una città che si chiama Suez sulla punta del golfo del Mar Rosso». Nella missiva si fornivano altri particolari sulle modalità del progetto che, secondo le voci raccolte, necessitava l’impiego di centomila uomini, quarantamila asini e dodicimila cammelli. La missione del rinnegato calabrese non era sfuggita nemmeno all’inviato veneziano Lorenzo Bernardo che subitamente avvertì il doge, affermando che gli ottomani: «Sono entrati in opinione che non vi sia altro rimedio, che ricavar quell’alveo che altre volte dai re d’Egitto era stato fatto, il quale incominciando dal porto di Damiata, traversando per 150 miglia incirca di paese, passava nel Mar Rosso al porto di Suez, pel quale comodamente si possa condur galee da questo in quel mare con facilità».
Il governo marciano — per una volta tanto in sintonia con Roma — informò prontamente papa Sisto V, ma il pontefice non si preoccupò particolarmente. Come riferiscono i rapporti dell’ambasciatore veneziano presso la Santa Sede, il pontefice, convinto dai suoi esperti del dislivello tra i due mari, si tranquillizzò, ringraziò il diplomatico e si disinteressò della questione. Sisto — assillato da problemi ben più urgenti — non aveva tutti i torti. Un anno più tardi, esattamente il 27 luglio del 1587, l’ottantenne ma sempre arzillo Dionigi- Uccialì morì «tra le braccia d’una zitella greca d’insigne bellezza, dopo haversi in sopra lei cessato le sue voglie». Ai suoi schiavi lasciò i beni di proprietà, compreso un villaggio da lui fondato nei pressi di Costantinopoli e chiamato Nova Calavria.
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