Recensione al libro di Mirella Mafrici, Uccialì. Dalla Croce alla Mezzaluna. Un grande ammiraglio ottomano nel Mediterraneo del Cinquecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2021, prezzo 14 euro.
Frutto di una rigorosa ricerca in più archivi europei è il recente volume di Mirella Vera Mafrici, dedicato alle avventurose vicende e gesta del pirata ottomano Uccialì, il quale, nonostante il nome, era nato in Calabria, precisamente a Le Castella, e si chiamava al secolo Giovanni Dionigi Galeni.
Innegabilmente si tratta di una biografia dal ritmo serrato ed avvincente che, senza risparmio, ripercorre una vita attiva fino all’ultimo, vissuta senza mai fermarsi. Mirella Mafrici, in premessa, sinceramente afferma che «la figura di Uccialì mi ha sempre affascinato, fin da quando, negli anni Ottanta, ho incominciato ad occuparmi di storia del Mediterraneo, e, in particolare di corsa e pirateria, di incursioni, difesa costiera del Mezzogiorno d’Italia, ma anche di schiavi rinnegati, di quanti vanno e vengono, ovvero dell’abiura e del ritorno alla fede di appartenenza» (p. 11).
È un tema accattivante, storiograficamente parlando, quello esplorato con acribia dalla Mafrici, la quale si pone l’obiettivo di studiare l’uomo Galeni/Uccialì in rapporto al mare, poiché è proprio sulla distesa acquea mediterranea che il pirata, oriundo calabrese, condusse un’esistenza piena d’imprevisti, di contrattempi ma anche di colpi di mano entrati nella leggenda.
Le coste calabresi ma anche pugliesi, campane, laziali, molisane, lucane ed abruzzesi sono punteggiate di torri, poste a debita distanza l’una dall’altra, poiché dall’età antica, medievale e poi moderna, dal mare proveniva anche il pericolo delle incursioni piratesche, dei saccheggi indiscriminati, dei paesi messi a ferro e fuoco.
Giustappunto la storia si svolge nel Cinquecento, «in quell’immensa pianura liquida che era il Mediterraneo, secondo la fervida immagine di Fernand Braudel; in quel crocevia antichissimo confluiva di tutto: bestie da soma, merci, navi, uomini, idee, religioni, culture, modi di vivere» (p. 13).
Un immenso corridoio commerciale, effettivamente, che non rappresentava affatto o soltanto un luogo di incontro ma anche, in misura più o meno decisa, un luogo di scontro, di civiltà e religioni differenti; pochi secoli prima c’erano state le Crociate, la paura dell’attacco degli infedeli covava a volte latentemente a volte patentemente; non si dimentichi il sacco di Otranto, perpetrato a spada tratta dall’esercito ottomano il 14 agosto 1480.
Ricorda l’Autrice che «turchi e barbareschi ingaggiavano una violenta lotta, dettata per lo più da motivazioni economiche, contro i cristiani, che abitavano lungo le coste, costringendoli talvolta a trovare rifugio nei centri vicini» (p. 17). Quando capitava di cadere prigionieri nelle mani degli infedeli, per chiunque si poneva un dilemma: «la cattività e la prospettiva di una schiavitù perpetua erano motivazioni fondamentali nella decisione di “farsi turco”, cioè di abbracciare il credo musulmano, con indiscussi vantaggi economici» (p. 18).
Restare schiavi per lunghissimo tempo o, rinnegando la propria fede, trovare la libertà e rifarsi una nuova vita? Questa era la domanda enigmatica cui ci si trovava di fronte all’atto della cattura o poco dopo. L’eroica virtù nel resistere alle sirene della libertà non apparteneva a tutti, nemmeno a Giovanni Dionigi Galeni, che divenne Uccialì.
Ancora in terra calabra Galeni/Uccialì «era mandato dal padre ad apprendere i rudimenti del sapere- abbaco e alfabeto- dal maestro del luogo; e il profitto era tale da sperare di sottrarlo al duro mestiere del mare, avviandolo a un’attività più idonea alla sua cagionevole salute. Non solo studiava Giovanni Dionigi; era solito seguire Birno [il padre] per imparare la sua “arte”, scrutare il mare, posizionare le vele, in attesa di decisioni relative al suo futuro» (pp. 26- 27). Tuttavia la vita di Galeni/Uccialì non doveva andare secondo i propositi dei genitori, poiché il 29 aprile 1536 fu sottratto per sempre dalle pareti domestiche dal pirata Barbarossa, che si trovava al comando di una squadra di trenta galere.
L’Autrice sottolinea che «non è difficile immaginare quanto fosse ingrata la vita degli schiavi nei bagni, ampiamente descritti dai viaggiatori occidentali o dagli ex forzati, come Cervantes in I bagni di Algeri, nei campi, negli arsenali, nelle cave di pietra» (p. 30). Non passò molto che Galeni/Uccialì, facendo di necessità virtù, abbracciò la fede musulmana divincolandosi da quella che altrimenti sarebbe stata una tormentata e inenarrabile cattività nelle galere e/o navi da corsa, a remare senza sosta.
Fu apostata, sposò una musulmana, adottò un nuovo stile di vita, fu al seguito di altri pirati, come Dragut. Ebbe ricchezze smisurate, in pratica dominò sui mari, attuando quella che per i tempi si configurò come una nuova talassocrazia; il tutto è narrato in pagine di sicura e densa presa sul lettore.
Raggiunse l’acme durante gli anni Settanta del Cinquecento, nelle fasi della Guerra di Cipro, allorquando «Venezia era decisa a lottare strenuamente per la difesa dei suoi diritti e Cipro, la perla dei suoi domini in Levante, era lo specchio più fedele di una serie di contraddizioni, sociali e religiose, che spingevano larghi strati della popolazione a nutrire simpatia per i turchi» (p. 58). Conseguentemente è ben delineato lo svolgimento della Battaglia di Lepanto, scontro navale avvenuto il 7 ottobre del 1571, che ovviamente vide Galeni/Uccialì schierato dalla parte degli infedeli.
È successivo lo scontro fra Galeni/Uccialì e l’ammiraglio genovese Gianandrea Doria, conflitto vinto peraltro a caro prezzo dalle forze cristiane. Ad ogni modo l’apostata calabrese inanellò una serie di trionfi, arrivando a conquistare Tunisi, affermandosi quale vero e proprio capitano del mare, dominando finanche sullo Stretto dei Dardanelli. Morì più che ottuagenario in terra infedele.
Terminando, l’apparato ecdotico è molto ricco, la ricostruzione puntuale in ogni aspetto, e la lettura, del pari, attrae l’attenzione.
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