Presentazione del 25 gennaio
Nel De finibus Cicerone ci dona un’interessante distinzione fra curiositas e sapienza, anzi “amore di sapienza”, che non consiste nel desiderio di sapere tutto (“omnia scire”), ma nell’anelito alla “contemplazione delle massime cose”. Più tardi, Seneca delinea con precisione ancora maggiore la figura del sapiens con riferimento, appunto, alle “massime cose”, ossia alla divinità, al tempo ed alla morte, e addita la via della profondità interiore come l’unica che il sapiens debba seguire.
Io credo che queste citazioni (fra le tante al riguardo possibili) non siano peregrine, perché proprio l’amore di sapienza è alla radice del “Viaggio” di Tommaso Cariati, un viaggio attraverso le regioni italiane che significa, per l’autore, il proposito di conoscenza fuori di sé, ma finalizzata all’appagamento intellettuale e, sopra ogni cosa, all’arricchimento interiore. Ogni viaggio è un percorso dentro noi stessi, una sorta di Anabasi che noi compiamo nel momento in cui i dati esterni si riverberano sulla nostra coscienza e rafforzano l’essenza della nostra interiorità o ce ne svelano aspetti a noi stessi ignoti. E questo vale ancor più per il “Viaggio” di Cariati, che è mirato alla “contemplazione delle massime cose”, come è facile evincere già dalla totale assenza, nel libro, di curiosità superficiale, fine a sé stessa. Ma l’erranza di Tommaso per i luoghi della nostra Penisola ha qualcosa di più e di oltre, rispetto alle fatiche letterarie del suo genere. Ce lo dice l’autore stesso, in una notazione davvero ardita e non a caso reiterata: “Il sapere non è la saggezza, la saggezza non è la sapienza”. Confesso la mia sorpresa: ho la sensazione che il distinguo sia troppo sottile, non sorretto da ragioni etimologiche o semantiche, ovvero dall’uso letterario dei due termini. Poi, alla fine della lettura, e scorrendo a ritroso le pagine del libro, comprendo che l’ideale di “saggezza” di cui si parla è il più elementare, in quanto il più umile, che si possa concepire. Esso coincide con la verità del Vangelo, che esime l’autore dal professare ideologie di sorta e gli consente di osservare e meditare nella condizione della libertà vera, che si carica di tensione civile ed etica, non di facili moralismi o di integrismi religiosi. La libertà distintiva dell’unica Chiesa credibile, quella che “soffre, combatte e prega”. E infatti il libro è gremito di riferimenti al Vangelo, che tutto riesce a spiegare, che ogni evento semplifica o rende comprensibile. E l’autore, a seconda dei casi, compatisce (cioè soffre insieme agli altri), combatte per la verità, assume le tappe del suo viaggio e le pagine del libro come una preghiera che si leva a Dio dalle fragilità e dalle grandezze degli esseri umani.
Con questa prospettiva, Tommaso Cariati ci propone il macrocosmo del nostro Paese, che si spalanca nella sua trama intessuta di storia, di cultura, di tradizioni e di modernità: come un grande affresco, in cui ogni regione contribuisce col suo colore, acceso o tenue, secondo i casi, ad un insieme che risulta d’incancellabile bellezza. È il Belpaese, insomma, da amare ed ammirare nello splendore dei paesaggi e delle città, da comprendere nelle contraddizioni e anche negli stridori della vita quotidiana. Tommaso dà l’impressione di appartenere alla schiera degli italiani che sono fieri della propria storia, della loro koinè di lingua e di cultura. Ma intendiamoci: nel “Viaggio” non esistono tracce di idealizzazione o di rimpianto.
Cariati ha una struttura mentale pragmatica, che gli impedisce di essere laudator temporis acti. Anche quando le sue riflessioni si fanno impietose o esprimono una forte delusione storica, egli non si chiude nell’indignazione sterile che sembra ormai permeare tanti strati della nostra società. E se in certi casi non trova risposte, rinuncia all’utopia, non al sogno, non alla speranza. Glielo suggeriscono la fede e come ho detto, la sua stessa struttura mentale.
Il “Viaggio” comincia dalla Sicilia per un motivo geografico: si sviluppa infatti da Sud fino all’estremo Nord. E all’autore del libro, che è anche il viaggiatore-pellegrino, si presenta subito una terra complessa, contraddittoria, indefinibile. Certo la più sfuggente fra le regioni italiane, e quindi la più esemplare e significativa di quell’ossimoro culturale ed antropologico che è l’Italia. Terra di meravigliosa bellezza, la Sicilia, variegata nei paesaggi: con una natura brulla ed arsa in certe zone, lussureggiante in altre, quasi una metafora del perenne fluttuare fra vita e morte che da sempre attraversa la sicilianità, anzi la sicilitudine. Terra ricca di storia, crogiolo di razze e di popoli diversissimi fra loro, che hanno determinato un DNA singolare e misterioso, con una vocazione alla filosofia, all’arte, alla cultura assolutamente senza eguali, non soltanto in Italia. Si pensi solo al fatto che oltre la metà degli scrittori italiani contemporanei sono siciliani, e si avrà un’idea dell’incidenza di questa terra anche sull’attuale panorama della nostra letteratura. Ma la sicilianità non ha solo il culto della Bellezza, ancorché intrisa di nostalgia e di inquietudine. Per contrasto, aspro e violento, ha al suo interno una storia mai interrotta di ingiustizie, di sopraffazioni, di tragedie individuali e sociali che chiamano in causa il Potere. E proprio il Potere è il Brutto, per Tommaso, l’oltraggio perpetrato ai danni della Bellezza; il Brutto nelle sue forme varie e miserande. L’autore lo rappresenta con tocchi rapidi, affidandosi alla forza disarmante della parola non urlata e ad una scrittura quasi sempre paratattica, la cui chiarezza obbedisce senza tentennamenti alla lucidità delle idee. Per altro la rapidità delle notazioni non è solo il segno di un’evidente propensione alla sintesi: Tommaso non indugia più di tanto sui fatti narrati, su cose e nomi, perché avverte l’insidia di muoversi sul terreno dell’ovvio, di incorrere in quegli stereotipi su cui tanti saggisti amano invece esercitarsi. E la sua intenzione di sottrarsi all’ovvietà si atteggia in taluni giudizi, netti ed inequivoci che potremmo definire “controcorrente”, se il termine non fosse abusato. Di Dacia Maraini, ad esempio, dice che ha una “scrittura perfetta, ottima per educande”. E più in là quando accenna agli esponenti della cosiddetta “scuola romana” e cita alcuni versi di Magrelli, incomprensibili e involontariamente comici, l’autore ci dice che “questi benedetti poeti non ci sono di grande aiuto: ne sono tanto bisognosi loro”.
Bene, abbiamo parlato dell’esemplarità della Sicilia. L’isola sembra infatti concentrare su di sé i chiaroscuri che ogni regione italiana presenta, in varia misura e con peculiarità differenti.
Ed ecco, a proposito dei chiaroscuri, alcuni titoli introduttivi: “Calabria citeriore, terra dai mille volti”; “Campania felix, Campania infelix”; “Emilia Romagna, dove si armonizzano gli opposti”. Tommaso le percorre tutte, le nostre regioni, si potrebbe dire palmo a palmo, rammentandone le storie e i tratti salienti con l’approccio che abbiamo definito. Un approccio che fa tuttavia registrare una deroga, precisamente quando lo scrittore-pellegrino compie il viaggio in Umbria. Già il titolo del capitolo dedicato alla regione (“Umbria, cuore vivo d’Italia”) lascia intuire la redundantia cordis dell’autore, ce ne offre un ritratto quasi a tutto tondo, giustificando il titolo stesso con una serie di ragioni significative e talora persuasive. La più pregnante riguarda la “fede genuina e spesso eroica della sua gente”, la religiosità venata di misticismo e vissuta da personaggi che devono considerarsi fra i più grandi della storia. L’empatia dell’autore diviene a tratti medesimezza con questo lembo d’Italia, specie là dove egli ci dice che il passato (quello di Francesco, di Chiara, di Benedetto) si proietta ancora nel presente, consegnando intatti i luoghi in cui “uomini e donne del nostro tempo, affaticati e oppressi, scelgono, secondo l’invito del Vangelo, di ritirarsi ogni tanto per «sedersi in disparte e riposarsi un po’»”. Ed è proprio tale empatia a proporci la spiritualità dell’Umbria come una sorta di “dover essere” per tutti noi, e la regione come un’isola felice dove, per servirci ancora del Nuovo Testamento, la plenitudo temporis è prefigurata e quasi a portata di mano.
Ha scritto Seganen nel suo “Saggio sull’esotismo”: “Si è fatto, come sempre, un viaggio lontano / da ciò che altro non era che un viaggio al fondo / nuovo di se stessi”. Ecco, Tommaso non si reca certo in terre remote o favolose, ma nel suo “Viaggio” attua a volte una singolare forma di esotismo, nel senso che molte cose, visitate e descritte, sono “altro” rispetto al suo vissuto. Ma il senso dell’alterità, vorrei dire l’amore per l’alterità, fa parte del mondo interiore di Tommaso ed attiva, come nel caso dell’Umbria, il senso dell’appartenenza.
Tommaso Cariati è comunque calabrese, pienamente calabrese. Alla Calabria lo legano l’appartenenza territoriale e antropologica ed un amore senza condizioni. In Calabria egli è cresciuto, si è strutturato, ha operato, nel lavoro e in molteplici attività culturali. E tuttavia questo suo amore non fa velo allo scrittore del “Viaggio”. Il racconto della regione non si impone sugli atri per ampiezza, per dovizia di particolari, per pathos narrativo. Lo sguardo di chi osserva, medita e scrive è, come sempre, sospeso fra distacco e partecipazione. Le notizie fornite sono, come al solito, perfettamente documentate, le conoscenze variano dalla storia alla geografia alla lingua alla fonetica, con una sicurezza che proviene da studi rigorosi ed appassionati. Sopra ogni cosa, mancano segni di lamentosità meridionalistica, e il meridionalismo che vi compare è sempre vigile, teso ad un impegno concreto. E così non compaiono vacue rivendicazioni dell’orgoglio delle proprie radici o accuse, rivolte ai politici, di aver dimenticato la Calabria. In questa regione che, come è stato detto, “è più isolata della Sicilia, che però è un’isola”, si sono consumati sprechi d’ogni genere, iniquità inaccettabili, e pochi hanno avuto il coraggio di non attribuire solo all’“altro” le responsabilità del degrado. In questo senso (ma non soltanto in questo senso) si deve dire che Tommaso Cariati è un calabrese d’eccezione. Non è un ingegnere che si diletta di letteratura o – cosa di per sé lusinghiera – “un poeta prestato all’ingegneria”. Più propriamente, ai nostri occhi egli è riuscito a incarnare il sogno di un filosofo calabrese, studioso di J. Dewey, che tanti anni fa intitolò “Per un umanesimo scientifico” un suo libro. Con Tommaso, in Tommaso, la scienza si salda con il patrimonio delle humanae literae e testimonia un profilo culturale non nuovo, ma oggi indispensabile: quello dell’“uomo integrale”. Tommaso lo fa con i suoi scritti e con l’interezza della sua persona, che conosce la fecondità della solitudine e sa metterla al servizio degli altri. Con passione, ma soprattutto con umiltà, che è dote rara nella società attuale e praticamente sconosciuta negli ambienti in cui egli opera.
di Pino Caminiti
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di Pino Caminiti