«Viaggiando in un paese forestiero, semplicemente per soddisfare la nostra curiosità, siamo tenuti a rispettare le credenze della gente del luogo; e se non ci è possibile assistere alle loro superstiziose osservanze senza testimoniare contro le medesime, allora faremmo meglio a restare a casa nostra». «Così scriveva nel 1868 il letterato e giurista britannico Craufurd Tait Ramage a proposito del suo avventuroso viaggio in Calabria compiuto quarant’anni prima, nel 1828, in un libro riedito da Rubbettino nella collana “In viaggio”; una collana che annovera ormai quarantun titoli di letteratura odeporica (da “odos” = viaggio e “poreia” = strada).
Utilizzo il brano che illustra la concezione del viaggio di Ramage per scrivere proprio di questo tema applicato alla Calabria, terra in cui, come è noto, gran parte di chi ne scrive dall’esterno (e talvolta anche dall’interno) tende a perpetuare non solo i pregiudizi del sotto-sviluppo, della criminalità, della riottosità al rispetto delle regole ma anche quello di una società intrisa di oscurantismo culturale. L’accusa è: “siete troppo attaccati al passato, alle tradizioni, alle superstizioni.
Ramage fu un viaggiatore temerario (io definisco questi tipi di viaggiatori “i temerari del Grand Tour”). Percorse la Calabria “selvaggia” ed arcaica dell’epoca quasi sempre a piedi, affrontando non pochi disagi. Ma fu anche moderno antropologo. Perché aveva ben compreso che recarsi in luoghi tanto diversi da quelli da cui si proviene ritenendo superiore la propria cultura significa mancare lo scopo stesso del viaggio, che è il confrontarsi con culture “altre”, comprendere realmente luoghi e comunità diversi da quelli da cui si proviene, disponibili ad essere sedotti e mutati dalla differenza altrui (sul tema del lasciarsi cambiare dai viaggi si legga Eric J. Leed “La mente del viaggiatore”). Sembra di scorgere nelle parole di Ramage una felice anticipazione di ciò che il più grande etnologo del Novecento, Claude Lévi Strauss, scrisse nell’incipit del suo famoso “Tristi tropici”, lamentando la “sozzura gettata sul volto dell’umanità” che già a quell’epoca (il libro uscì nel 1955 ma si riferiva alle sue esperienze in Sud-America negli anni Trenta) i viaggi ed il turismo (ma anche la modernità) avevano arrecato a regioni e culture che per secoli erano rimaste pressoché uguali a sé stesse.
E, a proposito delle superstizioni, Lévi Strauss si chiese: “si tratta proprio di superstizioni? In talune predilezioni o tendenze vedo piuttosto il segno di una saggezza che i popoli selvaggi hanno spontaneamente praticato, mentre la ribellione moderna è vera follia. Essi hanno saputo spesso raggiungere col minimo sforzo la loro armonia mentale […] I miti, i simboli del selvaggio ci devono apparire, se non come una forma superiore di conoscenza, almeno come la fondamentale.
Ramage prima e Lévi Strauss più tardi avevano ben compreso che giudicare le civiltà dissimili da quelle asseritamente più evolute del paese da dove proviene il viaggiatore, era operazione arbitraria ed irrispettosa e che non esiste solo il metodo di una superiore (cono)scienza per decifrare la realtà. Anche il mito, o se proprio volete, la superstizione, sono, invece, strumenti per comprendere un popolo e, nel nostro caso, una terra come la Calabria, che non potrà mai essere di fede razionalista, neo-illuminista, neo-positivista e che proprio per questa renitenza, per questa riluttanza ad uniformarsi al resto del Paese conserva il suo fascino, la sua umiltà, la sua sgangherata ed inimitabile bellezza».