Viaggio al termine dell’Italia: il carteggio inedito tra Fellini e Andreotti (La Stampa)

di Gianfranco Angelucci, del 3 Aprile 2012

Finalmente è ufficiale. Fellini non è solo un mago, un poeta, un magnifico illusionista grande manipolatore dei cinque sensi ma anche autore politico. In senso antropologico, tramanda i volti dell’Italia in fieri non solo coi film ad hoc come Prova d’orchestra o Ginger e Fred, ma anche con La dolce vita, profezia sulla società dello spettacolo, anticipo dei mostri d’oggi: in Viaggio al termine dell’Italia di Andrea Minuz (Rubbettino).
Maurizio Porro, Il Corriere della sera – 22 aprile 2012

Arriva in libreria Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico, un interessantissimo saggio di Andrea Minuz sulla dimensione politica del cinema del grande maestro riminese, che riporta tra le altre cose un prezioso carteggio inedito tra Fellini e Giulio Andreotti. Le lettere coprono un arco temporale che va dal 1974 al 1993. Un rapporto cordiale ma anche molto formale, misurato dapprima sulla debita distanza del “lei” per poi passare al “tu” nel 1986.
In esse si parla di cinema, di arte, persino di pubblicità (era appena stata approvata la legge Mammì). Ma il volume non si esaurisce certo qui e le sue pagine ci guidano a conoscere sempre meglio il lato politico del regista. A prima vista, appare insolito collocare il cinema di Fellini in una dimensione politica. Egli stesso alimentò incessantemente lo stereotipo dell’artista rinchiuso nel proprio mondo fantastico, insistendo sul fatto che, dall’infanzia, trascinava con sé anche la convinzione che “la politica fosse una cosa da grandi”.

Tuttavia, questo principio di elisione politica era del tutto funzionale alla costruzione del mito Fellini. A spiegare per certi versi la sua “anomalia” nel contesto assai irreggimentato del cinema italiano del dopoguerra.
Se nel cinema italiano del dopoguerra si definisce l’incontro tra le due grandi culture populiste dell’Italia, quella comunista e quella cattolica, l’unicum ideologico che esse producono trova nel «caso Fellini» una sua rielaborazione “fantastica”, visionaria. Inoltre, è Fellini tra i primi a dirci che da questo unicum ideologico, quale quello italiano, non è possibile tenere fuori la memoria del fascismo, come mostrerà in Amarcord.
Per questo, in occasione dei funerali di Fellini, già Ettore Scola notava che a suo avviso egli era stato «il più politico, contro ogni apparenza, dei registi italiani». Basti pensare a La dolce vita e al putiferio politico che innescò dentro la società italiana al suo arrivo nei cinema. Certo, poi ne abbiamo fatto anche l’epitome del cosiddetto “Italian Style”, l’icona turistica sinonimo di glamour, frivolezza, mondanità. Ma La dolce vita era ben altro.
Per questo l’autore torna sui dibattiti innescati dai film di Fellini nella società italiana, lavorando sulle rassegne stampa dell’epoca e su altri materiali preziosi conservati in varie cineteche e istituti.
Ma da un punto di vista interpretativo,  tutto il lavoro si regge su un solo motivo che ritorna più volte nel libro. E cioè l’idea che Fellini metta in scena l’italianità come una forma di adolescenza permanente.
Ecco cosa diciamo, “politicamente”, quando diciamo “felliniano”. Tutti i motivi, o i luoghi comuni che attraversano la sua opera possono essere ricondotti a questa idea di fondo. Un’idea che coinvolge tutto, incluso il mito di Fellini.

Indice

Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico. Il maschilista dell’anno che amava le femministe, di Andrea MinuzDa Gli Altri, 23 marzo 2012
Caro Andreotti, caro Fellini. L’amicizia tra due arcitaliani, di Jacopo Iacoboni – Da La Stampa, 28 marzo 2012
Fellini, dall’Italia a El Mundo, di Soraya Melguizo – Da El Mundo, 30 marzo 2012
“L’italianità per Fellini è adolescenza permanente”. Intervista ad Andrea Minuz, autore del saggio Viaggio al termine dell’Italia – Fellini politico, di Carlo Griseri – Da Cinemaitaliano. info, 26 marzo 2012
Fellini, il più politico dei registi, di Gianfranco Angelucci – Da La voce di Romagna, 01-04-2012

Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico. Il maschilista dell’anno che amava le femministe

Nell’immaginario collettivo, Fellini è sinonimo di sogno, libertà creativa, invenzione visiva, poesia. Eppure, in occasione dei funerali del regista, già Ettore Scola ebbe modo di notare che a suo avviso Fellini era stato «il più politico, contro ogni apparenza, dei registi italiani». Scola evidentemente non intendeva affermare che nei film di Fellini prendano forma precise tesi o idee politiche. Semmai, suggeriva che proprio muovendosi in un altrove immaginifico, collocandosi oltre gli schieramenti e le appartenenze ideologiche, Fellini aveva intuito di più e meglio di altri il senso profondo dell’italianità.
Prendendo in considerazione il tema del «femminile», da La strada a La città delle donne – passando per Le notti di Cabina, Giulietta degli spiriti e Il Casanova – la possibilità di una lettura politica dell’immaginario felliniano si offre via via in modo più esplicito. Non è un caso che, alla fine degli anni ’70, Fellini invitasse a rileggere La strada come un film «femminista». Una lettura tattica, evocata durante la lavorazione de La città delle donne, per presentare il film come l’ultimo capitolo di un discorso compatto e lineare, già di per sé rivendicativo ai tempi di Gelsomina. Dunque, persino in anticipo sulle proposte dei movimenti. In un’intervista ad Eugenio Scalfari nel 1979 , Fellini affermava: «Ne La Strada la protagonista era una donna pupazzo, trattata dall’uomo come un pupazzo, un oggetto, un animale; ma quando lei muore, lui impazzisce. In Giulietta accade più o meno l’incontrario, ma il senso è il medesimo. Quei due film furono girati più di vent’anni fa, ma erano due film femministi. Se ne sono accorti in pochi, ma ti garantisco che è così». Per Tullio Kezich, il più noto biografo di Fellini, se a prima vista nella fantasia felliniana non esiste la parità tra uomo e donna, è perché «la donna è quasi sempre collocata a un livello più alto, nonché avvolta nel suo mistero». Un livello talmente “alto” che finisce col condurre la donna sempre fuori dalla storia, nell’irrealtà di un regime di esistenza che è garantito dalla retorica del «mistero femminile». Il cosiddetto «mistero della donna», infatti, andrebbe anche collocato nel più terreno quadro dell’italianità di cui la «donna di Fellini» (come da lui stesso sottolineato in varie occasioni) è in qualche modo emblema. Soprattutto, la posizione di Fellini è da leggersi alla luce di un visibile scollamento tra il “progressismo” esibito dal personaggio – Fellini nelle interviste e la dimensione regressiva che invece regola i modi di figurazione del femminile nei suoi film. Un femminile esaltato a parole, insomma, cui corrisponde la persistente emarginazione della donna reale. In un’intervista per “Panorama” del 1974, Fellini esprime approvazione e appoggio (rigorosamente «apolitico») per le rivendicazioni femministe.
Tanto più urgenti, sottolinea, in un contesto arcaico quale quello italiano: «Quanto tempo dovrà passare – si domanda il regista – e quali mutazioni profonde dovranno prodursi nella psiche del maschio italiano, prima che tenti di accettare in buona fede di cambiare il suo comportamento sessuale da cavernicolo incoraggiato da una certa morale e da una certa educazione? La realtà italiana è ancora in gran parte questa, nonostante i dibattiti, le tavole rotonde, le proteste in piazza, le nuove riviste e tutte le altre iniziative promosse in nome della liberazione della donna da pregiudizi ancestrali». A margine di queste encomiabili considerazioni, tuttavia, l’intervistatrice gli faceva notare che i modelli tradizionali di donna dei suoi film «illustrano esattamente il contrario di quello che dice». «Dipende da come si guardano questi film», si difendeva Fellini. «Intanto vediamo una buona volta per tutte di riconoscere che il protagonista maschile, di cui si raccontano le avventure nei miei film, è quasi sempre un italiano immaturo cronico, mistificatore, confuso, bugiardo, gaglioffo e sconfitto». L’anno prima, mentre Amarcord trionfava pressoché ovunque, la neonata rivista “Effe (la prima rivista femminista italiana) eleggeva Fellini antifemminista del mese. Della stesura delle motivazioni si incarica Adele Cambria. Il giudizio era inappellabile: che nel 1973 Fellini «s’impaludi ancora tra i quattro stereotipi della madre, della moglie, della fidanzata e della puttana, ci pare un segno di arretratezza culturale cui, secondo noi, non corrisponde nemmeno più tutta la realtà del paese». Anni dopo, secondo una praticata seduttiva tipicamente felliniana, nel corso della preparazione di La città delle donne egli si rivolgerà proprio ad Adele Cambria per chiederle di scrivere «due paginette sulla musica della vagina» da utilizzare nel film. Proprio durante la lavorazione de La città delle donne, il rituale del set felliniano si carica infatti di precise valenze simboliche. Mentre fa un film sul femminismo, Fellini concretizza nel teatro di Cinecittà il sogno della sequenza dell’harem in 8? I giornali danno grande enfasi al “Maestro” intento a dar ordini e a «domare» le numerose attrici e comparse chiamate a recitare. Fellini, infatti, ha reclutato molte delle femministe del gruppo di via del Governo Vecchio a Roma (occupata qualche anno prima). Tuttavia, con l’uscita del film, Fellini confessava ora tutta la sua ignoranza in fatto di femminismo: «Non ho voluto parlare del femminismo, ma del femminile» (lì dove quando parlava del “femminile”, invitava a leggerlo in chiave “femminista”). O ancora: «lo non posso fare un film femminista, posso soltanto rappresentare le fantasie di uno simile a me, di un maschio della mia generazione, su questo nuovo e conturbante mondo femminile; che il femminismo rappresenta». Ma al di là del principio di elisione politica tipicamente felliniano, La città delle donne è la confessione di un uomo che non nasconde di essere cresciuto nell’Italia fascista.

All’ombra di modelli femminili monolitici, della glorificazione della madre da un lato e delle performance da bordello dall’altro. Come può un uomo così, sembra dirci Fellini, confrontarsi davvero con la donna, e con queste nuove donne in particolare? Che all’occorrenza sembrano fare straordinariamente a meno degli uomini come lui?
L’immaginazione felliniana, insomma, conduce la donna fuori dalla storia ma relega altresì il maschio italiano nell’impermanenza di un infantilismo perenne. Da qui prende forma quell’universo immodificabile, bloccato, raggelato in se stesso che attraversa tutta la sua opera. Un mondo in cui il progressismo può emergere solo come scacco, dissimulazione. C’è in tal senso un’immagine memorabile del film. Verso la fine vediamo il gruppo delle femministe avanzare issando un cartello con la scritta «progressenza». Interrogato sul significato di questa parola, Fellini osservava: «Progressenza vuol dire progresso più decadenza, e nel vocabolario d’Italia dovrebbe proprio esserci: non capita da noi che i due termini convivano, intrecciati e inestricabili?».

Di Andrea Minuz

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Caro Andreotti, caro Fellini. L’amicizia tra due arcitaliani

Nelle lettere inedite pubblicate da Rubbettino il regista lodava il politico, il senatore gli era grato “per la solidarietà durante i guai giudiziari”
Secondo Ettore Scola, che fece uno dei più bei film politici italiani, La terrazza, Fellini «fu il più politico, contro ogni apparenza, dei registi italiani». Eppure se pensiamo a lui oggi ci viene inesorabilmente in mente il maestro della Dolce vita, l’artista che inventò Mastroianni, e in un certo senso il moderno maschio metrosexual e tormentato, o al limite il corsivista feroce dei Vitelloni. Certo per film politici pensiamo ad altri, a Petri, al vecchio Rossellini, a Bertolucci di Novecento, o ad attori come Gian Maria Volontè.
E invece no: anche Fellini era intimamente attratto dalla politica, e per di più – sorpresa – da una politica non aliena dai rapporti, le amicizie, il milieu democristiano… Anche se ripeteva «non la capisco, non fa per me»: «Tutto quello che posso dire di politica si basa solo sui rapporti personali e su questo sentimento ambiguo e del quale però mi fido: la simpatia». Nei vent’anni dal 1974 al 1993, Fellini si era avvicinato umanamente a un rapporto intenso con chi meno t’aspetti: Giulio Andreotti. Un rapporto epistolare, di cui è prova adesso il carteggio inedito che compare in
Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico, di Andrea Minuz (Rubbettino). Ma anche un rapporto telefonico e di incontri diretti, sorprendente per certi toni, è per taluni aspetti spiazzante. Andreotti, è noto, ha avuto un rapporto decisivo e complesso col cinema italiano. Fu sotto segretario di De Gasperi con delega al cinema. Nel ’49 fu lui a emanare la legge che incentivava il cinema italiano, ma lo sottoponeva anche al vaglio di un’occhiuta commissione di controllo. Per capirci, trovò che in Ladri di biciclette c’erano «troppi stracci», ma fu anche lui a difendere Rossellini, che un senatore americano aveva chiamato «cocainomane». Un po’ censurava, ma poi, anche, democristianeggiava. Fellini non votò mai per il Pci (anche se fu in prima fila ai funerali di Berlinguer) e solo una volta per la Dc (nel ’76, le elezioni del temuto sorpasso), in genere oscillava tra repubblicani e socialisti. Da Andreotti, però, fu subito attratto, e glielo disse: «Mi piacerebbe moltissimo chiacchierare una notte intera. È un personaggio da corte shakespeariana come Otello». E Andreotti: «La Dolce vita fu indicativo di un periodo e sono state scritte innumerevoli pagine per disputare se Federico partecipasse del consumismo da via Veneto o volesse metterlo alla berlina. Ma io credo che il poeta non sia e non debba essere finalizzato né alla censura né alla difesa di una follia gaudente». Il divo Giulio rivelò «sì, ero amico di Federico, moltissimo. Mi telefonava spesso, in occasione delle mie vicende giudiziarie, e da lui ho avuto le parole più belle di solidarietà e amicizia». In alcuni punti le lettere paiono quasi di amorosi sensi. Andreotti aveva amato molto, e lo scrisse, Prova d’orchestra, Fellini gli mandò questo biglietto, «caro Presidente, ho letto sull’Europeo l’esatta, intelligente, equilibratissima analisi che lei fa del mio lavoro», il che non sempre riesce ai critici, notava. Dopo Ginger e Fred il maestro scrive al politico «caro Giulio, mi fa tanto piacere chiamarla così… », segno che ormai c’era affetto, e quasi confidenza. Invitano Fellini a far parte del Consiglio della Fondazione Fiuggi, sezione spettacolo, e lui domanda ad Andreotti: «Può farmi sapere, tramite l’amico Evangelisti (l’amico Evangelisti!, nda.) se è una cosa che la interessa vivamente, o una delle tante iniziative in cui la coinvolgono?». Parlano di Berlusconi, nel periodo in cui il regista si oppone duramente agli spot nei film in tv – introdotti nel ’91 proprio da Andreotti, per non rompere con Craxi – ma Fellini con Silvio è tutt’altro che astioso: «Caro Giulio, la tua premurosa telefonatina di ieri sera mi ha sorpreso e toccato. Sei proprio molto simpatico! Ammiro e invidio la tua generosa disponibilità verso gli amici. Proverò anche a telefonare a Berlusconi per ringraziarlo dell’omaggio estremamente amichevole». Gentilezza ai limiti della cortigianeria, si dirà; ma Fellini era così, anche se non è vero che vivesse su un altro pianeta. Per i 72 anni di Andreotti gli manda una caricatura del divo Giulio in tenuta papale, benedicente e beffardo, e la didascalia recita: «Anche se la sede non è ancora vacante, accetto di buon grado la tua benedizione». Ironico e pragmatico, un ritratto dell’italianità.

Di Jacopo Iacoboni

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Fellini, dall’Italia a El Mundo

Fellini en ‘Tangentópolis’. Un libro descubre la ambigua y no muy noble vida política del cineasta. Fellini fue íntimo amigo del ‘shakespeariano’ Giulio Andreotti
Federico Fellini fue, aunque no lo pareciera, el más político de los directores italianos”, dijo tras su desaparición, Ettore Scola, otro gran maestro del cine italiano. Y es verdad que no, el cine de Fellini nunca entró en la categoría del llamado cine político, ni el director de ‘La Dolce Vita’ (1960) hizo pública jamás su ideología o amistades dentro de las altas esferas de la política. Sin embargo un libro que acaba de ser publicado en Italia asegura lo contrario y analiza la peculiar y hasta ahora casi desconocida relación epistolar que el director mantuvo durante años con Giulio Andreotti.

“Fellini era el más político de los directores italianos porque trasladaba el discurso político al plano del sueño, la fantasía y el imaginario sin hablar directamente de política”, asegura Andrea Minuz, profesor de Historia del Cine en la Universidad La Sapienza de Roma y autor del libro ‘Viaje al fin de Italia. Fellini político’. Un ejemplo claro es ‘La Dolce Vita’, hoy convertida en un símbolo de glamour, frivolidad, moda… pero que en la época fue considerada un filme político “porque era una denuncia contra la modernización y la euforia del milagro económico italiano”, y desencadenó una enorme polémica en la época.

Según el centenar de biografías que se han publicado a lo largo de los años sobre el director de ‘8 y medio’ (1963), Fellini se dejaba querer tanto por republicanos como por socialistas. Nunca votó por el Partido Comunista aunque acudiera en primera fila al funeral de Enrico Berlinguer, secretario general del Partido Comunista Italiano, y en 1976 admitió haber votado a la Democracia Cristiana. “Fellini se acercaba a los políticos no por convicciones políticas sino por interés, para defender sus películas de la censura o la publicidad”, dice Minuz.

Precisamente fue por culpa de esta última que comenzó una guerra mediática contra Silvio Berlusconi, por entonces empresario de éxito gracias a sus televisiones. A principios de los años 90, ‘Il Cavaliere’ compró los derechos de emisión de las películas de Fellini y decidió emitirlas con cortes publicitarios gracias a una ley aprobada por el Gobierno de Giulio Andreotti, algo que enfadó terriblemente al director de ‘La Strada’. Sin embargo, mientras en los periódicos Fellini atacaba ferozmente el comportamiento del empresario y el Gobierno, en una de las cartas recopiladas en el libro, el director escribe al primer ministro para informarle de que había recibido un regalo de parte de Berlusconi y no sabía como agradecer tanta generosidad. “No sé como podré agradecérselo y quería saber de usted que me recomendaría. Ha sido muy amable”., escribe. “Esto es una muestra de la diferencia entre el comportamiento público y privado del maestro. Algo muy italiano, por otra parte”, afirma Minuz.

Las cartas con Il Divo

Quizá ese interés por defender su cine fue lo que le llevó a acercarse a Giulio Andreotti. En 1978 Fellini presenta ‘Ensayo de orquesta’. La película levantó una gran polémica y fue duramente criticada por parte de la izquierda. Fue entonces cuando Andreotti, por entonces primer ministro, escribió un artículo defendiendo el filme y alabando a Fellini. Éste le escribió para agradecerle sus palabras y a partir de ese momento comenzó una relación epistolar que se prolongó durante 15 años. “Me escribía y llamaba a menudo y durante mis problemas con la justicia tuve grandes palabras de solidaridad y amistad por su parte”, confesó en una ocasión el ex primer ministro italiano.

Con motivo de la entrega del León de Oro en el Festival de Venecia, Fellini escribe a Andreotti que sólo irá a recogerlo si se lo entrega él en persona, algo a lo que finalmente accedió. ¿Pero qué podía ver el maestro del celuloide en un político como Giulio Andreotti para sentir tanta admiración? Para Fellini, Andreotti no era un político más, sino “un pesonaje shakesperiano salido de la corte de Otelo“, afirma Minuz. “Se sentía fascinado por la ambigüedad, el poder y el misterio que le rodeaba… decía que tenía los ojos tan pequeños que parecía que viniera de otro planeta”.

Andreotti, sin embargo, veía en el director un óptimo producto para exportar. La imagen que Fellini daba al exterior nada tenía que ver con la Italia pobre o corrupta que reflejaba el neorrealismo y el cine político de la época. “Andreotti había entendido que Fellini conseguía decir mucho de la ideología italiana sin hablar de política directamente. Tenia un lenguaje camuflado que es el mismo de Andreotti: saber decir las cosas de modo preciso sin hablar nunca claramente de ellas. En esto eran muy parecidos”.

La relación entre ambos se prolongó hasta la muerte del director en 1993. En las cartas se puede leer como ambos sentían una profunda admiración por el otro. Poco antes de su muerte, Fellini le regala una caricatura del político vestido de Papa y le escribe: “Aunque el puesto todavía no está vacante, espero que antes o después, tu puedas realizar tu sueño“.

Di Soraya Melguizo

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“L’italianità per Fellini è adolescenza permanente”. Intervista ad  Andrea Minuz, autore del saggio Viaggio al termine dell’Italia – Fellini politico

“Fellini politico”, a prima vista, pensando ai luoghi comuni sul suo cinema può quasi sembrare un ossimoro. Perché invece non lo è?
Andrea Minuz: A prima vista appare insolito collocare il cinema di Fellini in una dimensione politica. Egli stesso alimentò incessantemente lo stereotipo dell’artista rinchiuso nel proprio mondo fantastico. Insisteva spesso sul fatto che, dall’infanzia, egli trascinava con sé anche la convinzione che “la politica sia una cosa da grandi”.
Tuttavia, questo principio di elisione politica era del tutto funzionale alla costruzione del mito Fellini; a spiegare per certi versi la sua “anomalia” nel contesto assai irreggimentato del cinema italiano del dopoguerra. Un cinema segnato, come tutta la nostra cultura d’altronde, da un forte quanto ingombrante rapporto con la politica. Rapporto esplicito, come nel caso del cosiddetto cinema impegnato. O indiretto, mediato cioè dalla costruzione di forme simboliche, come nel caso di Fellini.
Se nel cinema italiano del dopoguerra si definisce l’incontro tra le due grandi culture populiste dell’Italia, quella comunista e quella cattolica, l’unicum ideologico che esse producono trova nel «caso Fellini» una sua rielaborazione “fantastica”, visionaria.
Inoltre, è Fellini tra i primi a dirci che da questo unicum ideologico, qual è quello italiano, non è possibile tenere fuori la memoria del fascismo, come mostrerà in “Amarcord”.
Per questo, in occasione dei funerali di Fellini, già Ettore Scola notava che a suo avviso egli era stato «il più politico, contro ogni apparenza, dei registi italiani». Basti pensare a “La dolce vita” e al putiferio politico che innescò nella società italiana. Certo, poi ne abbiamo fatto anche l’epitome del cosiddetto “Italian Style”, l’icona turistica sinonimo di glamour, frivolezza, mondanità. Ma “La dolce vita” era ben altro.
Insomma, credo che per Fellini succeda un po’ come nel caso di Kafka. Non c’è un esplicito riferimento all’ebraismo nei suoi romanzi o nei suoi racconti. Eppure appare difficile interpretare l’opera di Kafka rimuovendo la dimensione specificatamente ebraica dei motivi profondi che la attraversano.

Qual è stato il primo indizio, il primo film in cui hai pensato all’aspetto politico dei film di Fellini? Hai poi rivisto con altro occhio le sue opere?
Andrea Minuz: Questo lavoro su Fellini mi è apparso sin da subito in una visione d’insieme compatta. Dal punto di vista della ricerca mi sono avvalso di materiali preziosi conservati in varie cineteche e istituti, tra cui anche un inedito, e cioè il carteggio tra Fellini e Andreotti conservato negli archivi del senatore.
Ho studiato la ricezione de “La città delle donne” nelle riviste del femminismo italiano, ho ricostruito i dibattiti politici su “Prova d’orchestra” e “Ginger e Fred” che tennero banco a lungo sui giornali. Ma da un punto di vista interpretativo, tutto si regge su un solo motivo che ritorna più volte nel libro.
E cioè l’idea che Fellini metta in scena l’italianità come una forma di adolescenza permanente. Tutti i motivi, o se preferisci i luoghi comuni che attraversano la sua opera possono essere ricondotti a questa idea di fondo. Un’idea che coinvolge tutto, incluso il mito di Fellini.
Voglio dire che Fellini non si limita a raccontare per lo più vicende di personaggi incapaci di entrare a far parte del mondo adulto. Costruisce anche un modello di messa in scena che è percorso da cima a fondo da una infantilizzazione delle forme. Valga su tutti il celebre esempio del Rex di cartone in “Amarcord”, o la femminilità debordante quando non mostruosa della cosiddetta “donna felliniana”.
La nostalgia dell’infanzia, i fantasmi della femminilità, il sogno – tutti questi motivi ampiamente celebrati dalla critica – assumono, alla luce di una lettura politica, un’unica connotazione patologica. Diventano l’allegoria di una nazione incapace di uscire da un’adolescenza permanente. Ed è qui che l’apparente rimozione del «politico» dalla sua opera assume anch’essa un valore emblematico.

Quale idea ti sei fatto delle idee politiche di Fellini, e cosa racconterebbe oggi?
Andrea Minuz: Fellini era un artista nel senso più totalizzante del termine. Il fatto di leggere politicamente i suoi film, non significa che Fellini sposasse idee precise, o tanto meno ideologie precise. Nulla di più distante da lui.
L’unica ideologia che percorre il cinema di Fellini è “l’ideologia italiana”. Ed è questa che volevo studiare e mettere a fuoco. Fellini, a mio avviso, va collocato nel solco di quegli intellettuali e artisti che, almeno da Leopardi in poi, si sono interrogati sul rapporto tra l’identità italiana e la modernità, nelle sue complesse implicazioni sociali, culturali, politiche. Come tale, il suo cinema rappresenta un patrimonio inestimabile per capire il nostro Paese.
Riguardo al personaggio. Bé Fellini si muoveva in modo quanto mai trasversale. Fu grande amico di Giovanni Leone e del repubblicano Ugo La Malfa. Confessava di aver votato per quest’ultimo poi per i socialisti di Pietro Nenni, una sola volta per i democristiani e mai per il PCI. Ma nel 1984 lo ricordano impietrito nel picchetto d’onore davanti alla bara di Berlinguer. Sviluppò inoltre una grande ammirazione, prima, un’amicizia poi, con Giulio Andreotti che ho cercato di ricostruire a partire dal loro carteggio.
Mi chiedi cosa racconterebbe oggi. In “Ginger e Fred”, che è anche in assoluto la prima satira antiberlusconiana, in anticipo di dieci anni sull’ingresso nella scena politica di Silvio Berlusconi, c’è gran parte dell’Italia degli ultimi vent’anni. Ma Fellini, nell’ultima parte di carriera, non riusciva a lavorare. I suoi film costavano molto, il pubblico era cambiato. Si era modellato su gusti e immaginari televisivi. Per un artista che era sempre vissuto in risonanza con la società, anticipandone spesso le mode e intuendone gli sviluppi, era una grande frustrazione. Non so cosa racconterebbe oggi, ma di sicuro non lo racconterebbe con il cinema.

Tra i suoi film, qual è quello in cui più si possono riconoscere le sue convinzioni politiche, e perché?
Andrea Minuz: Il film più politico è indubbiamente e com’è noto “Prova d’orchestra”.
Per certi versi, benché radicato nel contesto della fine degli anni Settanta e dell’emergenza terroristica, è davvero un’allegoria senza tempo della società italiana. Della sua passionalità continue e delle sue strutture fragili.
Ritratto nel linguaggio simbolico di Fellini, c’è un Paese stanco degli scontri di piazza, della violenza, dell’annullamento dell’individuo nello schematismo ideologico. Ma, soprattutto, si delinea in questo film come sia segnatamente nell’oscuro maglio d’acciaio che si abbatte sull’oratorio nel finale del film, il sempiterno ruolo catartico delle tragedie nazionali. Come un unico e isolato richiamo all’unità di un Paese diviso su tutto, sfibrato nella sua rissosità quotidiana, e che soltanto tra le macerie ritrova per un attimo la sua propulsione collettiva.

I tuoi prossimi progetti?
Andrea Minuz: Riguardo al cinema italiano, credo che gli anni Trenta siano il periodo che ancora oggi può riservare molte sorprese per uno studioso, anche se molto negli ultimi anni è stato fatto.
Per chi, come me, è interessato alle dinamiche della modernità italiana si tratta di un segmento prezioso. Mi piacerebbe studiare la produzione cinematografica popolare degli anni Trenta alla luce di una più ampia cultura visuale della modernità italiana, intrecciando l’architettura e il design, la moda e i rotocalchi. Studiare ad esempio i modelli di femminilità che vi prendono forma; modelli che sono radicalmente opposti alla donna del cinema neorealista e ai cliché che essa produce. E, in generale, assai meno monolitici, cioè irreggimentati nell’orizzonte della cultura fascista, di quanto si pensi.

Di Carlo Griseri

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Fellini, il più politico dei registi

Un libro di Andrea Minuz indaga i lati nascosti di Federico. Compresa l’amicizia con Andreotti

«L’opera di un disoccupato psichico legato a doppio filo con Poscurantismo cattolico».

Così l’Unità accolse l’uscita del film La Strada, il capolavoro di Fellini che due anni più tardi avrebbe conquistato il Premio Oscar. Per l’organo del Partito Comunista Italiano invece non conteneva altro che «filosofemi misticheggianti», o «inutili interrogativi pseudo-esistenzialistici». L’episodio ci fornisce una riprova, evidenziata dallo storico Gian Piero Brunetta, della «vera e propria ottusità visiva raggiunta dalla critica di sinistra verso la metà degli anni Cinquanta». Agli occhi dei clerici rossi, come li definiva Eugenio Montale, Fellini era colpevole di sottrarsi al dominio del Neorealismo (che peraltro aveva contribuito a creare insieme a Roberto Rossellini, con Roma città aperta e Paisà), estraneo a un cinema impegnato nella lotta di classe e nella denuncia sociale. I suoi film che ponevano in primo piano l’individuo, la sua libertà, le sue contraddizioni, le sue nevrosi, i suoi sogni, erano considerati di retroguardia, fuorvianti, diseducativi, pericolosi per il popolo in marcia. Malgrado ciò Fellini, l’artista disimpegnato, l’individualista sfrenato, andava avanti per la sua strada. Nel ’60, con La Dolce Vita, era stata la Chiesa ufficiale, il Vaticano stesso, a lanciare l’anatema contro di lui; e quando arrivò Amarcord in molti si accorsero che il fascismo era stato raccontato nella sua essenza e rappresentazione come mai prima di allora. Ora all’approssimarsi dei vent’anni dalla scomparsa di Federico Fellini qualcuno comincia ad accorgersi che il regista più individualista e caparbiamente assorto nel proprio mondo fantastico, il più distante da ogni impegno politico dichiarato, è stato in realtà l’autore che con più coraggio e lucidità si è opposto al dispotismo delle ideologie. E se vent’anni fa, ai funerali di Federico, Ettore Scola, persona di fine intelligenza, aveva dichiarato: Fellini è stato il più politico, contro ogni apparenza, dei registi italiani»; oggi arriva finalmente in libreria uno studio serio di Andrea Minuz su Fellini politico, con un titolo echeggiante Céline, dal tono inquietante: Viaggio al termine dell’Italia (Rubbettino, pp.242, euro 16) ed egregiamente documentato.

L’autore si occupa accademicamente (presso la Sapienza di Roma ma anche al Sacro Cuore di Milano) di Storia del cinema, con particolare riguardo al «rapporto tra processi culturali e forme della visione». Nessuna paura, sono formule amate dai professori nel tentativo di marcare il territorio e tracciare perimetri traducibili in moltiplicazioni di cattedre. Il contenuto è di gradevole

leggibilità e affronta di petto un tema a cui per tanti anni si è sempre girato intorno con eccessiva circospezione: «Questo saggio – premette Minuz – propone una lettura “politica” di Fellini discutendo il rapporto che la sua opera intrattiene con l’ideologia italiana». E si lancia in una disamina dell’intera opera del Maestro indagata sistematicamente in questa nuova ottica; una galoppata in sette sezioni, corrispondenti grosso modo ai periodi artistici del regista, più un’appendice intitolata Il Maestro e il Divo, in cui viene presentata la scarna corrispondenza epistolare (molto formale) intercorsa tra Fellini e Giulio Andreotti; «due monumenti dell’italianità», accomunati «da un’idea tutta italiana del potere e dell’ arte, che a loro modo incarnavano nell’accezione metafisica di enigma, mistero, ambiguità». Niente di scottante, soltanto la riprova di una reciproca simpatia che si era rafforzata negli anni senza tradursi in null’altro che in un elegante scambio di cortesie. Andreotti aveva sostenuto Fellini fin dalla Dolce Vita, ne aveva lodato Prova d’Orchestra, si era addirittura profuso sul Corriere della Sera in una “recensione” a favore di Ginger e Fred; funzionale in quel momento a frenare l’irresistibile ascesa di Silvio Berlusconi e delle sue tre reti private. Fellini, al suo solito, per tutta risposta aveva persino declinato l’invito a entrare nella “Casa di Dante” della quale il potente uomo politico era Presidente. Il libro di Minuz è importante per ben altro; perché con onestà contribuisce a ragionare sull’opera artistica di un gigante al quale troppo spesso ci si accosta attraverso frusti luoghi comuni.

Di Gianfranco Angelucci

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