Da Italia Oggi del 16 gennaio
Al centro di tutte le recenti vicende nazionali – dallo sdoganamento del Cavaliere, dopo la condanna per evasione fiscale e la decadenza da senatore, alla frammentazione del partito di plastica, in parte finito nell’orbita del partito democratico – c’è il rapporto tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, tra il vecchio e il giovane comunicatore. Seguace di Denis Verdini, toscano, deputato e giornalista in quota Ala, il gruppuscolo verdiniano che sostiene il governo Renzi, Massimo Parisi racconta la storia di questa strana coppia (e di Verdini, che ha fatto da tramite tra i due come una specie di sensale di matrimonio) nel brillante memoir politico intitolato Il patto del Nazareno. 18 gennaio 2014-31 gennaio 2015 (Rubbettino 2015, pp. 262, 19,00 euro). All’inizio era stato un idillio. Pareva quasi che Papi avesse perso la testa per Renzi: «Oggi c’è una bandiera che sventola forte in Italia” si esaltava umiliandosi, «che si chiama Renzi. E c’è una bandiera a mezz’asta che si chiama Berlusconi». Renzi, che addirittura lo aveva ricevuto nella sede del Pd a Largo de] Nazareno scandalizzando la Ditta, era per un accordo con Berlusconi e il suo stato maggiore, tant’è vero che s’affrettò a formalizzare urbi et orbi il Patto dei Nazareno per le riforme costituzionali prima ancora di provvedere alla destituzione di Enrico Letta con l’ok del Quirinale. Naturalmente Renzi non era per un accordo a qualsiasi costo, come forse per un po’ s’era illuso Berlusconi. Renzi era per un accordo che convenisse a lui più di quanto conveniva al partito di plastica. Era Renzi a fare le regole, non Berlusconi, che anche così, tuttavia, tornava per lo meno in pista dopo essere stato cacciato dal parlamento e mandato ai servizi sociali. Ma come nella natura dello scorpione, secondo Orson Welles, c’è il desiderio di pungere a morte la rana che gli sta salvando la vita, nella natura di Berlusconi c’è il desiderio di primeggiare.
Dice Parisi: «Poiché non lo faranno certo gli storici, mi prendo la libertà – il lettore perdonerà l’audacia di inserire una valutazione personale nello scorrere di fatti e retroscena – di considerare l’incidenza del fattore umano sulla storia. Se di storia si può parlare. Ebbene il patto del Nazareno è morto il 25 maggio 2014. A poco più di cento giorni dalla nascita. A ucciderlo, nella testa e nel cuore di Berlusconi, è il risultato delle europee». Papi, semplicemente, schiumò d’invidia per il «40,8% raggiunto da quel «ragazzotto» di Rignano sull’Arno». Renzi era più amato di lui.
Comincia qui la guerriglia di Denis Verdini per tenere in piedi il Patto, che Berlusconi e i falchi suoi consiglieri, a partire da Renato Brunetta, vogliono affossare. Primo consigliori di Papi, Verdini subissa il boss di report che lo aggiornano sullo stato dell’alleanza. È pro-Patto, come pure Gianni Letta. Non è sempre facile esserlo. Renzi, furbino, cambia le carte in tavola ogni volta che gli conviene: i falchi tuonano, Verdini e Letta predicano pazienza e rassegnazione, ma alla fine sono i falchi ad averla vinta. Parisi riporta le parole d’una fedelissima: «Voi della stampa vi siete preoccupati così tanto del cerchio magico e non tenevate conto dei disastri che stava facendo il duo tragico… Il «duo tragico» è composto da «quelli che hanno trattato con Renzi», cioè Verdini e Letta. L’affermazione raccolta in Transatlantico è tutt’altro che una uscita estemporanea». Dopo l’elezione di Mattarella alla presidenza della repubblica, il patto salta definitivamente: «Nel segreto dell’urna a Mattarella è andato anche un considerevole numero di voti di grandi elettori di Forza Italia (fra i quaranta e i sessanta). Un politico di lungo corso come Altero Matteoli commenta a caldo la scelta azzurra di votare scheda bianca: «Abbiamo fatto un bel capolavoro non votando Mattarella. Abbiamo ricompattato il Pd, spostato a sinistra l’asse del governo e, infine, abbiamo pure spaccato Forza Italia». Verdini, intendiamoci, non è un politico particolarmente simpatico (anche se scrive ottimi report ed è di vista lunga). Sgradevoli sono tutte le slinguate che gli tocca infilare tra un consiglio e l’altro al Cavaliere per compiacere il povero megalomane. Non è bello che un uomo del suo talento e della sua età si riduca a trattare il migliore amico di Dudù come neanche Churchill è stato mai trattato dai suoi ministri e compagni di partito. Ma è soltanto Verdini, con tutti i suoi difetti, e che oggi immagino scriva report per il Boyscout, a spiegare con esattezza di che morte è morto il caimanesimo politico: «Quando avevamo le pistole cariche non le abbiamo usate e adesso che, come si dice in Toscana, abbiamo una pistola «schizza piscio», vorremmo far paura a chi ha il cannone!» Conseguenze di questa cecità politica non sono solo questa o quella riforma che avrebbe dovuto essere condivisa e invece no. È la disfatta contemporanea del berlusconismo e della sinistra antiberlusconiana. Forse, come suggerisce Parisi, è stata questa la grandezza di Renzi: spingere gli oppositori interni ed esterni all’autoannientamento.
di Diego Gabutti
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