Ieri nel seguire un telegiornale mi sono davvero amareggiato. Qualche esempio. Una mozione (promossa dal consigliere della Lega Zelger) dichiara Verona “città a favore della vita”. L’obiettivo è naturalmente la legge 194 che contiene norme sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza (una legge, ricordiamolo, confermata a grande maggioranza da un referendum). A Lodi molti bambini stranieri sono stati esclusi da bus e mense. I bambini non sono tutti eguali? A Riace il Ministero dell’Interno dispone il trasferimento dei migranti come se fossero delle derrate alimentari o i libri di una biblioteca.
«Dopo sessant’anni perché siamo ancora a questo punto?» si chiede la scrittrice Margaret Atwood (l’autrice de Il racconto dell’Ancella), che ha partecipato alla Women’s March di Toronto.
La stessa domanda me la rivolgo anch’io tutti i giorni.
Pensavamo di avere percorso tanta strada, di avere davanti un futuro meraviglioso e invece abbiamo invertito la marcia.
Come scrive Bauman:
«Abbiamo invertito la rotta e navighiamo a ritroso. Il futuro è finito alla gogna e il passato è stato spostato tra i crediti, rivalutato, a torto o a ragione, come spazio in cui le speranze non sono ancora screditate. Sono gli anni della retrotopia».
È da poco uscito in Italia il saggio Nazionalismo banale (Rubbettino Editore, 2018, pp. 352, € 20,00) dello psicologo sociale Michael Billig (Professore di Scienze Sociali alla Loughborough University from 1985 to 2017) e purtroppo la lettura non è affatto consolante.
Il saggio è del 1995. Già più di vent’anni or sono in piena globalizzazione (fine della storia, sedondo i più) Billig sosteneva una tesi controcorrente:
«Il nazionalismo non è morto. Sopravvive alla globalizzazione perché nelle democrazie avanzate spesso abbandona i tratti più marcatamente aggressivi o rivendicativi per comparire sotto le vesti “banali” della bandiera esposta negli uffici pubblici, nei riferimenti culturali diffusi dai mass media, nella simbologia più o meno esplicita delle ritualità sportive».
Un libro che oggi, con l’affermarsi ovunque di forze populiste e nazionaliste, possiamo definire profetico.
In realtà – spiega Billig – il patriottismo non è mai morto perché non è mai scomparso. Anche nei momenti di letargo è pronto ad erompere.
Certo, questi sono anni in cui i simboli del nazionalismo sono sbandierati in modo aggressivo, soprattutto contro gli immigrati e gli stranieri, e quindi il fenomeno è più appariscente e preoccupante.
Cosa fare, ammesso che questa tendenza sia da considerarsi un regresso?
Cosa possono fare le élite culturali?
La risposta del sociologo non è tranquillizzante:
«Forse le élite culturali non possono risolvere il problema perché potrebbero essere parte del problema stesso».
Certo, le difficoltà delle democrazie contemporanee sono generate dal neoliberismo globale che aumentando il divario tra ricchi e poveri produce la reazione del populismo nazionale.
L’unica speranza sarebbe quindi quella di ridurre quel divario «con una distribuzione più equa della proprietà e con una sicurezza lavorativa ben maggiore per chi è più indifeso».
Se si riuscisse a raggiungere questo risultato allora – secondo Billig – gli stati nazionali sarebbero più omogenei e le tensioni che oggi li agitano potrebbero cominciare a scemare.
Banale, ma forse impossibile.
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