Da Domenica 24 – Il Sole 24 Ore del 28 dicembre
Per Keynes, «la particolare caratteristica per la quale si è tradizionalmente supposto che l’oro sia particolarmente adatto a fungere da riferimento del valore, cioè la sua inelasticità di offerta» era proprio ciò che consigliava di farne a meno. Per quanto occupino una posizione minoritaria, ci sono ancora studiosi d’opinione diversa. È il caso di José Antonio de Aguirre, economista spagnolo che ha curato, fra l’altro, un’edizione critica della Teoria generale.
La lezione della crisi economica, tradotto da Rubbettino con prefazione di Lorenzo Infantino, è un libro che lascerà interdetti alcuni lettori. La crisi finanziaria iniziata nel 2007 è considerata una sconfessione della macroeconomia dell’ultimo secolo.
Per Aguirre, che si rifà all’austriaco Carl Menger, il denaro è un mezzo di scambio liberamente accettato da cittadini e imprese, che lo domandano per far fronte ai pagamenti necessari per lo svolgimento delle proprie attività. Il denaro esiste col solo obiettivo di ridurre i costi delle transazioni. Se ci si limitasse al baratto, cioè gli scambi potessero avvenire esclusivamente fra persone che desiderano acquistare l’una ciò che l’altra ha da venderle, essi sarebbero quantomai difficoltosi.
I metalli preziosi s’impongono come “denaro” per le loro caratteristiche intrinseche: il fatto d’essere socialmente apprezzati (i monili in oro precedono le monete d’oro), scarsi, facilmente frazionabili. La cartamoneta nasce inizialmente non per prenderne il posto: semmai, per questioni di praticità. Quando però la Bank of England ottiene il monopolio dell’emissione dei biglietti di banca, si mette in moto un meccanismo che nel giro di poco più di un secolo ci consegna l’attuale sistema di denaro cartaceo a corso forzoso. Così, cambia la natura del credito. Siamo passati da una moneta-merce a una moneta-credito, e questo è avvenuto in parte per ragioni politiche, in parte per la presunzione dei tecnici. Se il denaro dovesse servire soltanto a facilitare le transazioni, avrebbe poco senso mantenere una moneta per Stato. Lo avevano capito i padri fondatori dell’euro, quando si accorsero che un mercato dei capitali comune avrebbe tratto beneficio da una valuta “internazionale”.
Di norma, però, le classi politiche esigono che la moneta sia più che “denaro”: ovvero che serva di volta in volta ad avvantaggiare un certo gruppo sociale. La politica non vuole rinunciare a un potente strumento redistributivo: ci viene in soccorso l’arcinota citazione di Lenin, per cui la svalutazione sarebbe il modo migliore per sovvertire il sistema capitalistico. La presunzione sottende un problema più serio.
Le banche centrali creano o distruggono mezzi legali di pagamento, “per il fatto che credono di conoscerne la domanda”. Ma è effettivamente così? Per Aguirre, gli istituti di emissione in realtà si muovono al buio, affidandosi a strumenti che prescindono dall’effettiva domanda di “denaro” – sia quando agiscono discrezionalmente, sia quando si rifanno a delle “regole” di condotta (come un tasso d’inflazione programmato). Milton Friedman è il teorico che meglio aveva colto il problema, consigliando agli istituti d’emissione «di limitarsi a mantenere, in un periodo prudenziale di tempo (quattro o cinque anni), un tasso di crescita costante di qualche aggregato monetario facile da osservare».
Anche il cosiddetto “monetarismo” – cioè l’idea di controllare l’offerta di moneta per evitare oscillazioni eccessive nel livello dei prezzi – ad Aguirre appare un fallimento. Non solo le valute cartacee si deprezzano suppergiù nell’arco di una generazione: il semplice fatto che “i prezzi aumentino sempre” rende impossibile consentire ai consumatori di beneficiare appieno della maggiore produttività, che dovrebbe coincidere con una deflazione “buona”.
Si potrebbe rispondere ad Aguirre che sta cercando la pietra filosofale, una moneta merce che dia una misura di valore “obiettiva”. Se l’avessimo ed essa avesse «un immutabile potere d’acquisto, la razionalizzazione del calcolo economico sarebbe enormemente avvantaggiata». Se la valuta cartacea si deprezza continuamente, il movimento dei prezzi relativi è confuso dentro una generale tendenza all’aumento del livello generale dei prezzi. Con una moneta stabile, i movimenti dei prezzi relativi si vedrebbero con chiarezza: imprenditori e consumatori potrebbero assumere decisioni più consapevoli su come gestire risorse scarse. Il libro di Aguirre è breve, ma denso e stimolante. Magari lo si può leggere assieme a «The System Worked» di Daniel Drezner, la cui tesi è invece che nella crisi il sistema di governance della finanza globale ha retto piuttosto bene.
Il liberista Aguirre rifiuta quello che chiama il “modello tedesco” di banca universale, perché «una cosa è la banca che somministra il nuovo denaro bancario che ha sostituito la scomoda moneta metallica, altra cosa sono i mercati mobiliari primari e secondari, nei quali si collocano e si commerciano le azioni, i buoni, le partecipazioni a fondi d’investimento e titoli d’ogni genere». A differenza di altri sostenitori del cosiddetto narrow banking, cioè del ritorno alla separazione fra banche commerciali e banche d’investimento, egli però riconduce di nuovo il problema alla particolare natura del credito nelle società contemporanee. Le banche centrali non sono nate per stabilizzare i prezzi né per svolgere alcuna “macrofunzione”, ma per stabilizzare le banche di credito.
L’espansione delle loro attività le ha allontanate da questa attività “micro”, alimentando nel contempo l’aspettativa che esse potessero farsi carico di qualsiasi errore causato dall’espansione incontrollata del credito (cioè, da loro stesse). Se Aguirre non è aprioristicamente contrario all'”innovazione finanziaria”, non ritiene però che il luogo opportuno per la finanza innovativa siano i bilanci delle banche: «che cosa sarebbe accaduto se i mutui subprime e gli altri crediti frazionati e incorporati nei titoli (che ci hanno portato alla crisi attuale) fossero stati quotati in una rispettabile borsa valori?». Negli scambi di mercato si produce conoscenza, e di questa conoscenza c’è tanto più bisogno quanto più navighiamo in acque inesplorate.
Di Alberto Mingardi
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