Uomini e no? Parafrasando un titolo di Vittorini ci si occupa, con la ripubblicazione di “Tiro al piccione” (Rubbettino 2022, pp. 320, euro 18) di Giose Rimanelli (1925-2018), di un pezzo importante della storia d’Italia: la guerra civile e i suoi vincitori e vinti. Il partigiano Johnny di Fenoglio combatteva tra i primi, quelli di Rimanelli tra i secondi. La memoria ha un futuro, parola di Sciascia, ma solo se questa non diventi ostacolo per guardare a quella stagione con onestà intellettuale: affidarci alle fonti e non ai pregiudizi. La vicenda di questo volume è complessa. Il critico letterario, azionista, Carlo Muscetta e Cesare Pavese si batterono per portarlo in stampa, a differenza di chi vedeva con sospetto quella letteratura dal sapore reazionario. Venne pubblicato solo nel ’53. Calvino non nascose il «disagio ideologico» rispetto a una lettura che apprezzava ma con pudore. Il libro di Rimanelli è la storia, con molti tratti autobiografici, di un giovane molisano che decide di liberarsi dalle miserie della provincia lanciandosi su di un camion di nazisti in ritirata. «La storia di un giovane della mia età che vede la Resistenza dalla parte sbagliata» commentava Pavese a proposito. Lo scrittore piemontese ben conosceva le ingiustizie che la vita aveva riservato a chi distingueva gli uomini solo come vincitori o vinti. Antonio Di Grado, storico della letteratura, ne tratteggia spunti determinanti «alla morte fa seguito la rinascita, in questo romanzo multiplo e rapsodico». Non può considerarsi un libro militante. Lì si insinua l’errore di giudizio, o forse di pregiudizio. Non si tratta di un romanzo d’un fascista pentito, bensì di un giovane che subisce il «gorgo del sangue», senza un’idea di riferimento, che però ha la fortuna di uscire, vivere, ascoltare altre voci. I repubblichini di Rimanelli hanno tante voci, alcune ci rimandano ai temi della identità nazionale: «”Oh, vorrei servirlo anch’io il mio Paese” dissi. Ma dov’è il mio Paese? È veramente buffo: noi di quaggiù, i repubblichini, diciamo di essere i veri figli d’Italia; quelli che stanno in montagna dicono che l’Italia appartiene a loro». Il rapporto su e giù è centrale per comprendere il titolo che scelse Rimanelli. Nello scontro reale e non ideale, quello fatto di sangue e polvere, tra fascisti-antifascisti, i primi stavano posizionati giù assedianti, mentre i secondi da sopra tentavano di annientarli cercando di beccare il bersaglio del “piccione”, cioè l’aquila imperiale sul cappello dei militi di Salò. Marco Laudato, il nome dell’alter ego dell’autore, vive la crudeltà della trincea. Un ragazzo ai margini della Storia che privo di coscienza politica si ritrova imprigionato nella guerra civile che imperversa nell’Italia del Nord. Una lettura necessaria per capire perché tanti giovani di allora continuarono per decenni a vergognarsi di portare ferite sul corpo. «Quelli allora mi rideranno in faccia oppure mi prenderanno a calci nel sedere, perché l’Italia fascista è un carnaio di figli di mamma uccisi alle spalle». Un romanzo intenso e sofferto quello di Rimanelli, che ci restituisce uno spaccato della stagione che ancora oggi è estremamente attuale in un Paese incapace, in parte, di affidare la diatriba pro e contro alla storiografia anziché farla diventare strumento abusato della dialettica politica. Giose Rimanelli, scrittore, poeta e saggista, nel 1960 si trasferì Stati Uniti per rimanervi fino alla morte a 92 anni. È stato il primo italiano invitato a parlare alla Biblioteca nazionale (la Biblioteca del Congresso) degli Stati Uniti nel 1960. Da “Tiro al piccione” è stato tratto il film omonimo per la regia di Giuliano Montaldo. —