Da Difesaonline.it 27 maggio
Quando penso ad un funzionario internazionale che ha passato gran parte della carriera all’estero, l’immagine che mi vien naturale è proprio quella che ho di fronte: fisico asciutto, capello brizzolato e morbido, eloquio vivo e diretto, che soppesa cosa dire, per quell’antico rispetto che si deve alla funzione svolta; per quella chiara consapevolezza del ruolo ricoperto, squisitamente tecnico, mai politico.
Andrea Angeli, maceratese, per 30 anni portavoce con l’ONU e la UE, e con una parentesi come consulente politico del capo missione a Kabul, ha lavorato in Cile, Cambogia, Sarajevo, Mostar, in Kosovo, a Nassiriya, a Kabul.
Ruoli con cui ha vissuto le crisi internazionali degli ultimi anni, conoscendo da vicino i principali protagonisti della nostra diplomazia.
Angeli, una vita da globe trotter in giro per il mondo ed oggi a Bologna a parlare di un libro.
E’ un libro che esce domani per Rubettino, il titolo è “Kabul Roma andata e ritorno” (via Delhi).
Un titolo – se vogliamo – complesso. Un libro che parte da un ritorno in Kosovo, dopo tanti anni, con un capo missione un po’ speciale, che è l’Ambasciatore italiano Lamberto Zannier, che poi diventa a sorpresa, ma non per quelli che lo conoscevano bene, segretario generale dell’OSCE.
Poi c’è il ritorno in Afghanistan che però dura poco, sotto la guida di Staffan de Mistura, che poi diventa, anche a lui a sorpresa, sottosegretario del governo tecnico di Mario Monti.
Il secondo capitolo racconta un po’ le particolarità dell’arrivo di un “onusiano”, come vengono definiti quelli che provengono dall’ONU (Staffan vi aveva prestato servizio per 42 anni) ed il suo approdo alla Farnesina (non era mai successo che ai vertici del Ministero degli Esteri giungesse un funzionario dell’ONU) e tutto quello che ciò ha comportato.
Un arrivo che poi si allarga al caso Marò (trattato da pag. 82 a pag. 160 ndr) che scoppia a meno di due mesi dall’insediamento di de Mistura; (il libro descrive) una cronologia, a partire dal 6° giorno dall’accadimento – (quando De Mistura viene di fatto incaricato di seguire in prima persona la vicenda ” to get them out”) -, che serve per mettere in chiaro alcuni punti, fissa dei paletti per chi volesse capirne di più sulla vicenda.
E’ un libro che vuole fare chiarezza, senza esprimere però particolari valutazioni che lascio al lettore.
E poi si chiude con un capitolo dal titolo: professione POLAD.
Che è il “political advisor”, il consulente civile che viene inserito in una alcune missioni particolari.
Una vita passata in diversi teatri operativi all’estero, che ti ha consentito di veder i nostri militari all’opera. C’è nel tuo ricordo una situazione o un volto, che rendono appieno il vero significato del loro operare lontano dall’Italia?
Il primo militare che vidi in missione fu un giovane carabiniere del Tuscania che incontrai appena misi piede nella capitale namibiana: aveva poco più di 20 anni. Io avevo un completo blu perché venivo dalla sede di Baghdad, e lui mi diede dei pantalonacci militari che usai 7 mesi.
L’ultimo che ho visto in teatro in Afghanistan, poco prima che io mi imbarcassi sull’aereo era invece il comandante generale dell’Arma, il generale Tullio Del Sette.
E questa parallelo tra il primo che incontri, un giovane carabiniere, e quello che saluti poco prima di terminare quella che potrebbe essere l’ultima missione, cioè il Comandante Generale, mi fa pensare un pò.
E l’altra analogia, che mi ha fatto un po’ specie, la collego al tragitto verso l’aeroporto per lasciare, forse per l’ultima volta, l’Afghanistan; mi passò sopra, dando una svirgolata con l’ala, un A 129 Mangusta (l’elicottero da esplorazione e scorta dell’EI, ndr), pilotato da un tenente colonnello del Vega di Rimini (il 7° Reggimento Aviazione Esercito ndr), Luca Giannini, che dal portellone, mi salutò con il braccio; ed io in quel momento pensai quando mai mi sarebbe successo di essere salutato in quel modo.
Anche in questo caso l’analogia la colgo tutta: perché oltre ai carabinieri che facevano attività di polizia militare, in quella che fu la mia prima missione, in Namibia, correva l’anno 1989, c’erano soprattutto gli elicotteristi, comandati da Antonio Lattanzio.
Facendo un paragone tra i militari italiani che hai visto operare all’estero all’inizio della tua carriera e quelli durante la tua ultima missione, noti differenze?
Siamo passati dalle missioni romantiche, fatte di molte speranze; si pensava che le crisi si potessero risolvere facilmente, c’erano i soldati di leva, mi ricordo molto entusiasmo, poche missioni con mandato fattibile.
Da allora l’asticella si è alzata; le crisi sono diventate più profonde, hanno richiesto l’invio di più soldati, ma non sempre il loro numero sul terreno implica il successo.
La crescita professionale delle nostre FF.AA è stata enorme.
Gli attuali generali girano da quando sono capitani. Tutto molto positivo, a patto che non venga superato il limite oltre il quale si pecca di di presunzione.
Dobbiamo stare con i piedi per terra. L’umiltà deve rimanere la chiave di volta del successo.
Noti una differenza nel modo in cui la popolazione oggi percepisce le Forze Armate?
Non è che in passato l’opinione pubblica italiana abbia in linea generale espresso contrarietà per le missioni all’estero, soprattutto quando duravano poco.
E’ proprio la lunga durata degli interventi a non essere accettata, soprattutto se la situazione economica generale e quella interna del Paese non contribuiscono a farla digerire.
Al momento sono previste altre tue partenze?
Io sono vicino ai 60, l’età in cui l’ONU colloca a riposo tutti quelli che sono entrati prima del 90.
Sto valutando cosa fare nel mio futuro prossimo: ho l’esperienza giusta, ancora tanti progetti, magari con altri organismi internazionali. Vedremo.
di Enrico Baviera
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KABUL – ROMA, andata e ritorno (via Delhi)