Fabio Martini dedica un’interessante biografia al compianto leader socialista. Le vicende della grande stagione del socialismo italiano, l’ascesa e il declino di un big tra le luci e le ombre del secondo (e purtroppo ultimo) miracolo italiano
Anticomunista, laico e libertario. In una parola, socialista.
Ma con uno stile e un piglio nuovi, in cui si mescolavano una forte arroganza – esibita nella comunicazione pubblica e praticata come metodo di gestione del potere – un grande senso tattico e una visione politica di grande intelligenza. In una parola, Craxi.
Quest’anno anche all’ex leader del Psi è toccata la celebrazione necrofila a cifra tonda: i 20 anni dalla scomparsa.
Nel bailamme editoriale che ha preceduto e accompagnato l’evento, si è segnalato bene Controvento (Rubbettino, Soveria Mannelli 2020), un saggio a cavallo tra la biografia e l’analisi politica dedicato all’ultimo segretario socialista da Fabio Martini, cronista parlamentare de La Stampa e docente di Giornalismo politico a Tor Vergata.
La vera storia di Craxi, recita il sottotitolo. Ma è davvero così? La parabola craxiana è ancora più legata alla dimensione emotiva dei ricordi che a quella razionale della storia. Perciò ognuno ha il suo Craxi. Così com’è ancora legata alla dimensione emotiva la rievocazione di quegli anni ’80 in cui l’Italia ebbe le ultime grandi performance: considerato corrotto e di latta dai critici e, viceversa, ricordato con forte nostalgia dagli estimatori, il penultimo decennio dello scorso millennio è ancora oggetto di dispute e divisioni a volte feroci.
Logico che la stessa sorte sia toccata all’uomo simbolo dell’epoca, protagonista di una vicenda politica esaltante e tragica e comunque unica.
Diciamo allora che un vero Craxi non esiste. Tuttavia, tra tutte le monografie a lui dedicate, Controvento spicca per lo sforzo di restituire ai lettori una ricostruzione imparziale del craxismo, inteso sia come ultima incarnazione del socialismo italiano sia come inizio di una trasformazione abortita del sistema politico.
Come giustamente afferma Martini (e come ha finora sottolineato chiunque abbia avuto tra le mani il suo libro) Craxi non ci si improvvisa. Il corpulento leader milanese arrivò alla ribalta nazionale in punta di piedi, dopo una gavetta durata un quarto di secolo, che gli diede la possibilità di farsi le ossa in più settori, dalle amministrazioni lombarde (in particolare il Comune di Milano) ai consessi internazionali, dove ebbe l’opportunità di stringere legami importanti e di sviluppare una visione politica originale.
L’autonomismo craxiano, secondo Martini, si declinò essenzialmente in due modi: innanzitutto, l’anticomunismo e poi l’idea di costruire un’alternativa laica alla Dc.
Ma, soprattutto, partì dalla critica dell’unità a sinistra in cui «i comunisti stavano sopra e i socialisti sotto».
Una visione senz’altro maturata sin dalla prima giovinezza, in seguito sia a vicende familiari (la doppia emarginazione politica di papà Vittorio, avvocato ed esponente di spicco dell’antifascismo milanese, ad opera prima della Dc e poi del Pci) sia dai contatti coi dissidenti dell’Est europeo.
Questa visione fu caratterizzata anche dalla caparbia coerenza con cui Craxi decise di condurre la propria battaglia politica nel Psi, sulla base della convinzione che il partito che fu di Treves e Turati e all’epoca era di Nenni fosse l’unica casa possibile per i riformisti e che il riformismo fosse l’unico modo in cui la sinistra potesse e dovesse incidere nella vita italiana.
L’anticomunismo a sinistra era considerato poco meno di una bestemmia, nel ventennio in cui Craxi affrontò la propria gavetta: violare l’egemonia del Pci e sottrarsi al ruolo subalterno di fiancheggiatori voleva dire compromettere rapporti e carriere, a dispetto del fatto che i socialisti fossero già entrati nella stanza dei bottoni, a prezzo però di un’altra subalternità, stavolta tutta politica, ai democristiani.
Gli anni ’80 furono il prodotto di una strategia politica nuova, basata su un decisionismo inedito nella storia repubblicana e, soprattutto, sulla voglia di forzare gli equilibri tra i partiti in una direzione diversa.
Comunque se ne giudichi l’operato, quella del leader socialista fu una ventata di aria fresca, propiziata da una serie di fattori: la crisi del sistema sovietico, irrigiditosi nell’era Breznev e messo in discussione in Italia da Berlinguer; la crisi di una certa cultura di matrice leninista degenerata nelle tragedie del terrorismo rosso; la crisi del mondo sindacale propiziata anche dalla stagnazione della seconda metà dei ’70; l’erosione della Dc e la contestuale incapacità del Pci di bucare tra i ceti medi a dispetto della strategia berlingueriana. E si potrebbe continuare.
Fu grazie a questa convergenza di fattori che Craxi, entrato nella scena nazionale come re Travicello di un partito in disseccamento elettorale e diviso tra correnti litigiosissime, riuscì a imporre la prima leadership forte e a guidare il governo più longevo della Prima Repubblica.
Proprio sulla costruzione di questa leadership Martini scrive pagine formidabili, in cui l’aneddotica si lega all’analisi politica ed entrambe sono contestualizzate senza faziosità alcuna nelle vicende dell’epoca.
C’è, per capirci, l’elogio per il taglio della scala mobile, che fermò l’inflazione e si rivelò un toccasana per il mercato. Ma c’è la critica per la crescita del deficit spending, che a partire da allora divenne incontrollabile e portò a quella crescita del debito pubblico con cui facciamo i conti anche oggi.
C’è, per capirci meglio, la descrizione di una politica estera forte, basata sull’orgoglio nazionale e su un atlantismo leale, che non pregiudicò, tuttavia, il filoarabismo craxiano e i rapporti con i dissidenti dell’Est Europa.
Tuttavia, queste pagine avrebbero meritato qualche approfondimento in più. Magari per chiarire meglio la differenza tra il filoarabismo socialista e quello praticato o avallato da alcuni settori della Dc (il famoso Lodo Moro dice niente?). E, soprattutto, per capire in che misura la politica estera craxiana ebbe tratti originali o si differenziò da ciò che facevano sottobanco i predecessori del segretario del Psi solo per la maggiore, esplicita, muscolarità.
Ancora: c’è l’elogio meritato per la sensibilità con cui Craxi riuscì a coniugare l’ascesa politica del suo Psi con un’elaborazione culturale forte e trasgressiva, in cui fu coinvolta la migliore intellighenzia: dice nulla la Biennale del dissenso? Dice nulla il Vangelo socialista commissionato a Luciano Pellicani? Dice nulla la mostra sulla Milano degli anni ’30, che mise in discussione il dogma antifascista e impose nel mainstream una lettura della storia inedita e, stando a certi canoni, borderline?
Ma nel dinamismo dell’ascesa covavano le cause del declino e poi del disastro: per scavalcare i poteri forti, Craxi dovette diventare potere forte a sua volta coi metodi della sua epoca. Ci si riferisce, ovviamente alle tangenti.
Il leader socialista, spiega ancora Martini con rara lucidità, non fece nulla per contrastare il meccanismo, ma lo interpretò a modo suo: come compartecipazione della politica alla vita economica e non come ricatto o corruzione spicciola (meglio ancora: la richiesta di mance). Questa concezione, unita al forte accentramento della vita del partito, si rivelò fatale al leader. Ma col senno del poi è doverosa un’altra domanda: quell’accentramento, che sfociò in una gestione a tratti autoritaria, fu l’esclusivo prodotto del volontarismo craxiano o fu una necessità dettata dall’esigenza di compattare le file per competere con avversari più strutturati e radicati? Fu (o fu solo) un’esibizione di egomania oppure anche il necessario rimedio alla frammentazione correntizia che aveva minato la salute del Psi?
Riflessioni a parte meritano anche le pagine dedicate alle riforme istituzionali: il presidenzialismo, prima confinato nelle nicchie missina e repubblicana, divenne mainstream con Craxi, che fu il primo leader ad agire in maniera presidenziale. Ma il sistema dei partiti, di quei partiti, era davvero riformabile?
Il fatto che, come sostiene correttamente Martini, questo sia crollato per cause esterne (e cioè in seguito alla fine della Guerra Fredda), dovrebbe senz’altro far propendere per il no.
E questo potrebbe contribuire a spiegare come mai il Psi non riuscì a crescere oltre il 14 per cento e finì risucchiato nel sistema. Soprattutto, dovrebbe spiegare, almeno in parte, il crollo paradossale, avvenuto nel momento storico in cui la caduta dei regimi dell’Est aveva dato ragione all’anticomunismo di Craxi.
Le celebrazioni del ventennale dalla scomparsa del leader socialista si sono rivelate, specie per i commentatori più maligni, l’occasione per rimarcare la differenza tra lo spessore della classe dirigente dell’epoca e la pochezza di quella attuale.
Controvento, non senza qualche malizia, ha contribuito a rafforzare questo paragone, purtroppo azzeccato. Ma lo fa con garbo e imparzialità e riesce a smarcarsi dalla letteratura celebrativa (e spesso faziosa) tipica delle ricorrenze.
Detto altrimenti, Controvento è un libro destinato a restare e a diventare fonte per gli storici. È uno dei primi punti fermi di un dibattito che deve ancora svilupparsi appieno. Basta questo per consigliarne la lettura.
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