Oggi dobbiamo considerare la felicità come un’antica chimera, non se ne sono più presentate le condizioni storiche.
Houllebecq, Serotonina
Leggere, studiare, riflettere sul pensiero di un autore che non appartiene alla propria tradizione culturale può essere sommamente istruttivo, benché complicato. Ancor più complesso, tuttavia, è passare alla fase successiva, ovvero alla comprensione di un siffatto alternativo sistema di pensiero. Se poi si tenta di ragionare in termini politici a proposito di un autore che non è primariamente un pensatore politico (e probabilmente nemmeno in seconda battuta: solamente sviscerandolo si trovano le tracce di un pensiero giudicabile politicamente), ma uno scrittore, drammaturgo e poeta, come è stato Yukio Mishima (1925-1970), allora la faccenda si complica e non poco.
Agli occhi di un occidentale, la tradizionale dicotomia che separa l’Occidente da ciò che esso non è, in termini politici, economici e sociali, ricalca un po’ o, perlomeno, ad essa deve parte del suo significato la classica distinzione introdotta da Benjamin Constant nel suo Discours pronunciato nel 1819. Da un lato, una libertà vissuta come pacifico godimento dei propri beni, della propria libertà e di ciò che si possiede in generale, dall’altro lato una partecipazione attiva, continua e pressoché totale agli affari della comunità, costituita quest’ultima alla stregua di un monolite. Per dirla con Karl Popper, com’è noto, la prima assume i contorni di una società aperta, costituita da individui, mentre la seconda ritrae la condizione di una collettività che caratterizza una società chiusa.
Come Luciano Pellicani ha ricordato in molteplici suoi volumi, ivi compreso l’ultimo, pubblicato postumo, Perché in Occidente c’è più libertà che in Oriente? (Rubbettino, Soveria Mannelli 2020), la storia della società occidentale è in fin dei conti un perenne scontro tra società aperta e società chiusa, tra Atene e Sparta. Non è però detto che l’una non possa in qualche modo imparare dall’altra, così come, tutto sommato, non si può escludere che si possano trovare vie parzialmente diverse da queste, se a metterle a fuoco è qualcuno che non appartiene a una prospettiva occidentale.
La parabola di Mishima, come conclude Danilo Breschi nella sua intensa ed incalzante monografia (Yukio Mishima. Enigma in cinque atti, Luni Editrice, Milano 2020), sfugge a una categorizzazione prettamente e rigidamente occidentale. Si tratta di un modo di vedere altro e lo scrittore de I colori proibiti rimane per questo un enigma. Benché provi a trovare una soluzione che in qualche misura aiuti nello spiegare lo scrittore giapponese a chi non l’abbia letto e si limiti ad una visione eurocentrica del mondo, lo studioso pistoiese, di professione storico del pensiero politico, si premura immediatamente di aggiungere che si tratta di un’operazione inevitabilmente deficitaria. La formula “scoperta”, composta dalla somma di Dostoevskij (per la radiografia della psicologia umana e l’enfasi posta sulla bellezza), Proust (per una certa visione dell’arte come apprendistato alla vita) e D’Annunzio (per il culto di una bellezza sensuale e guerriera, nonché per il fascino provato nei confronti della forza e dell’azione volitiva), comprende tre addendi i quali non producono un risultato completamente amalgamabile. Soprattutto rischia di rimuovere la peculiarità mishimiana, ovvero la cultura autoctona di cui l’autore di Confessioni di una maschera è impregnato sin dall’infanzia. Di tutto questo Breschi è ben avvertito, cosicché la monografia consente un’adeguata, equilibrata conoscenza dell’autore nipponico, nel rispetto dell’enigma che è e che non può non restare tale.
Col gesto estremo compiuto il 25 novembre del 1970, il seppuku, Yukio Mishima, pseudonimo con cui Kimitake Hiraoka comincia a firmarsi dal 1941 (se si opta per l’onomastica tradizionale giapponese, prima andrebbe il nome, ovvero Hiraoka, o Mishima, e dopo il nome, quindi Kimitake o Yukio), fu in qualche modo fedele e leale ai valori seguiti per tutta la vita. Un fautore di una società basata sulla gerarchia e lo spirito guerriero, sulla tradizione e il senso della continuità, un eroe che ebbe sempre come riferimento la tradizione patriottica dei samurai: simbolo, questo, dell’«inalterato della tradizione quale antidoto che uccide il virus moderno dell’alterazione continua, incessante» (p. 232). Più che un conservatore, dunque, trattasi di un reazionario, sostiene Breschi, di una personalità indisposta e indisponibile a venire a patti con la modernità occidentale e con la sua imitazione giapponese. Entrambe ingenerano smarrimento, infiacchimento fisico e morale, apatia culturale.
Il seppuku, si diceva. Il suicidio rituale, un gesto fortemente evocativo e pregnante, oltreché doloroso. Infatti esso rispecchia volontarietà e, al medesimo tempo, obbligo verso una causa alta da cui non si può fuggire: la pena è il disonore. Si tratta, insomma, di un rituale che i samurai usavano per sfuggire a una morte disonorevole per mano dei nemici. Mishima lo compie dopo aver occupato l’ufficio del generale Mashita, il capo di stato maggiore dell’esercito di autodifesa, e, presolo temporaneamente in ostaggio, tenuto una breve arringa ai soldati forzatamente radunati nella piazza antistante. Un’azione condotta assieme ai più stretti e fidati allievi della milizia personale, il Tate no Kai, che Mishima aveva fondato nel 1968 con l’intento di preservare e, meglio, far rivivere quell’ardore guerriero e tradizionalistico tipico del Giappone imperiale precedente all’occupazione statunitense postbellica. Un gesto messo alla berlina, fortemente ridimensionato e ridicolizzato dalle autorità politiche del suo Paese. Ad esempio, come ricorda Breschi, il primo ministro Eisaku Satō definì Mishima un kichigai, una persona che aveva perduto il senno (p. 181).
Non era così, però. Il problema stava nel fatto che ammettere l’estrema lucidità dello scrittore de Il padiglione d’oro, prenderlo sul serio avrebbe significato, per usare le parole di Marguerite Yourcenar, «rinnegare una supina acquiescenza alla sconfitta e al progresso della modernizzazione, così come alla prosperità che era seguita» (cit. ivi). Mishima era un profondo critico e un viscerale nemico della modernità, considerata come un processo di spersonalizzazione e corruzione dissolvente, che era penetrato nel suo amato Giappone imperiale per colpa degli Stati Uniti. Ciò emerge in modo plastico dal proclama letto poco prima del seppuku: «Abbiamo veduto il Giappone del dopoguerra rinnegare, per l’ossessione della prosperità economica, i suoi stessi fondamenti, perdere lo spirito nazionale, correre verso il nuovo senza volgersi alla tradizione, piombare in una utilitaristica ipocrisia, sprofondare la sua anima in una condizione di vuoto … Abbiamo sognato che il vero Giappone, i veri giapponesi, il vero spirito dei samurai dimorassero almeno nell’Esercito di difesa nazionale … Dov’è finito il vostro spirito di guerrieri? Qual è il significato di questo esercito ridotto ormai a un gigantesco deposito d’armi senz’anima?… Abbiamo intrapreso quest’azione nell’ardente speranza che voi tutti, a cui è stato donato un animo purissimo, possiate tornare a essere veri uomini, veri guerrieri» (pp. 174-175).
Al proprio Paese Mishima non perdonava d’aver negato ciò che era, le sue tradizioni, il suo spirito. In modo particolare, egli non perdonò in alcun modo all’imperatore Hirohito di aver reso, il 1° gennaio 1946, la cosiddetta “dichiarazione della natura umana dell’imperatore” (Ningen-Sengen). Egli costituiva il vertice di un sistema armonioso, perfetto in se stesso, a cui si doveva la massima obbligazione. Una divinità che si faceva ideale incarnato, nella prospettiva mishimiana. Rigettare, abdicare alla propria natura divina significava per Mishima tradire l’essenza della cultura nipponica e di chi in essa si riconosceva, devotamente e assolutamente, secondo gli ideali shintoisti.
L’importazione dall’Occidente di un certo culturalismo astratto, universalistico, dai tratti scialbi, dai contorni indefiniti non poteva che essere totalmente rifiutata dall’autore di un saggio eloquentemente intitolato La difesa della cultura – un Occidente che comunque visitò, tra Nordamerica ed Europa, elogiando in quest’ultima l’eterno ed estatico canone della bellezza. Poteva definirsi migliore una cultura che adottava come propri capisaldi un utilitarismo gretto, un individualismo ossessivo, un materialismo fine a se stesso? Certamente non per lo scrittore giapponese, che faceva della dimensione tradizionalistica, impregnata di afflato comunitario, tensione patriottica e spirito sacrificale, la propria ragion di vita. Il consumismo di matrice moderna a trazione occidentale, secondo l’autore di Sole e acciaio, non era che la messa in moto della decadenza di un popolo, l’anticamera della distruzione di una cultura, di un’intera civiltà millenaria. Mishima avversava il culto del progresso e del nuovo, di per sé considerato sinonimo di giusto e buono, così come l’ossessione presentista, il ripiegamento dell’individuo sul culto di piaceri volgari e materiali, visti come i segnali del crepuscolo definitivo dell’eterno. Come scrive efficacemente Breschi, «poggiando i piedi su rami tagliati non si scruta l’orizzonte, si precipita» (p. 105).
Sempre lo storico pistoiese nota come lo stesso pseudonimo Yukio Mishima indichi il nitore rutilante del sistema di pensiero dell’artista giapponese. Yukio significa infatti “nevoso”, mentre Mishima, città situata tra il Monte Fuji e il mare, indica il luogo dove godere la più bella veduta del Fujii. Nella cultura nipponica, la neve è il simbolo di una bellezza pura e fuggevole, e spesso, nei componimenti poetici giapponesi noti come haiku, essa è associata ai fiori di ciliegio. La combinazione, ricorda Breschi, rimanda alla figura del guerriero eroico: «affiancata al fiore di ciliegio, simbolo della caducità delle cose del mondo, la neve è portatrice di purezza, quella degli intenti che animano ogni impresa eroica e della sincerità (makoto) che la contraddistingue, del fatto che, per un samurai, in particolare, parlare e agire sono sinonimi» (p. 116).
Il samurai, per Mishima, non incarna solo un antenato lontano, ma è una figura che in ogni giapponese deve risvegliarsi. Un ideale cui aspirare, non solo per la forza fisica, ma per la dedizione a una causa, per il sentimento di attaccamento a qualcosa che va al di là della soddisfazione di un desiderio materiale o di una bramosia momentanea. Con le parole di Nicolás Gómez Dávila, personalità adottata da Breschi per accompagnare il lettore nel rompicapo Mishima, «non c’è cosa più deprimente dell’appartenere a una moltitudine nello spazio. Né più esaltante dell’appartenere a una moltitudine nel tempo». Sempre più Mishima vedeva nelle generazioni giapponesi postbelliche soltanto persone vili, capricciose ed egoiste, mediocri e prive di senso dell’onore. La democrazia imbolsisce gli animi aristocratici e gli spiriti combattivi. La tensione patriottica, l’anelito verso l’eterno andavano spegnendosi. Così crollava un sistema orgogliosamente e onorevolmente antimoderno, incardinato su stabili valori e non prono al progresso inteso come mero cambiamento.
Ciò che la parabola mishimiana ci può insegnare è proprio questo. Per vivere una vita piena, l’individuo moderno non può che riscoprire il senso di una vita vissuta per una causa che impegna in maniera risoluta e appassionata. In ciò può essere invertito il pessimismo cosmico di Houllebecq, dalla cui penna escono forse le pagine più urticanti, ma veritiere, che ritraggono l’apatia contemporanea. Sempre più prende piede un’ideologia degli impegni non vincolanti, secondo cui ciascuno può, in qualsiasi momento, modificare le proprie scelte, proprio perché non si è disposti ad assumere la responsabilità delle conseguenze di tali orientamenti, mutare idea e pelle. Non ci si può rassegnare ad essere una vela in balìa degli eventi, che viene spinta ora a destra ora a sinistra. Mishima crede nell’importanza non della scelta in sé, ma della forza, dell’impegno profuso in tale scelta: non basta scegliere, bisogna credere con ardore in ciò che si fa. A tal proposito, sembra fare proprie le parole di Sōren Kierkegaard citate da Breschi: «nello scegliere non importa tanto lo scegliere giusto quanto l’energia, la serietà e il pathos col quale si sceglie» (p. 51).
Mishima ci insegna che non si dà vera vita senza autodisciplina, serietà e senso del dovere. Lo scrittore giapponese disprezzava il mondo occidentale moderno, la sua volgarità, la sua massificazione imperante, anodina e spersonalizzante. Secondo una lente prospettica, e talvolta mediante argomenti differenti, sono considerazioni che non distano poi del tutto da ciò che scrisse Leo Strauss a proposito della democrazia moderna come cultura di massa. Non è comunque detto che non si possa invertire la rotta, a patto di riscoprire un senso di identità forte, uno spirito aristocratico e un orientamento culturale fatto di contorni definiti e contenuti pieni, e non già di vacue ombre mortificanti. Come scrive Mishima, si va avanti «solo nella convinzione quasi disperata di essere fedele a qualcosa» (p. 194). Dopo tutto, a ben vedere, forse sarebbe sufficiente riscoprire un po’ lo hobbit che è in noi. I personaggi tolkieniani, come Bilbo, Frodo e Sam, amano certamente e sinceramente la propria vita confortevole, si crogiolano negli agi di un’esistenza mite e tranquilla, si beano nell’ozio della Contea. Nondimeno si dimostrano eroici nel momento in cui sono chiamati a scegliere se combattere il male o trastullarsi nella bambagia. Non è detto, come Thomas Carlyle vorrebbe, e come Mishima sembra riecheggiare in Introduzione alla filosofia dell’azione, che solo i grandi uomini fanno la storia: è dagli uomini qualunque, rivitalizzati da un pizzico di aristocratico eroismo in più, che dipendono il futuro delle società e il corso della storia.
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