Da Il Corriere della Sera del 9 luglio
Dopo la strage di Dacca, abbiamo scoperto ancora una volta che i terroristi non sempre vengono dai ceti diseredati, non appartengono ai «dannati della terra». Lo abbiamo riscoperto nel senso che qualcosa, nella nostra cultura profonda, ci impedisce di prendere atto una volta per tutte del fatto che non è, o è solo in parte e neppure quella principale, il disagio sociale ad armare la mano del terrorismo jihadista. Nel caso del Bangladesh, uno dei Paesi più poveri del globo, i terroristi erano figli addirittura delle classi agiate; e ce ne siamo molto stupiti, quasi avessimo dimenticato che Salah Abdeslam, protagonista degli attentati parigini del novembre scorso, veniva pur sempre da una famiglia di ceto medio che abitava in un dignitosissimo palazzo borghese. Gli esempi ulteriori non mancherebbero, almeno da quando la strage dell’11 settembre fu guidata dall’ingegnere egiziano Mohamed Atta, agli ordini di Osama Bin Laden, figlio di un miliardario.
Ma è come se fossimo rimasti tutti discepoli di Marx e della sua idea che ideologie e religioni (dunque anche il fondamentalismo islamista) appartengono al mondo della «sovrastruttura», laddove invece le cause vere dei fenomeni sociali e della storia in generale andrebbero cercate altrove, a livello della «struttura», cioè dei rapporti sociali di produzione e, in sostanza, dell’economia. Un’idea particolarmente in sintonia del resto con i caratteri più profondi della cultura occidentale, che pone appunto l’economia al vertice di tutto, che da tempo ne ha fatto la dimensione centrale dell’esistenza (non si regge soprattutto sull’economia, da ciò forse la sua fragilità, l’intero assetto dell’Unione Europea?).
Per di più, la centralità dell’economia si è accompagnata soprattutto in Europa a un processo impetuoso di secolarizzazione che ha reso un luogo comune l’idea che la religione sia il regno dell’illusione e della mera apparenza, quando non della superstizione; qualcosa che i «lumi» della modernità presto cancelleranno definitivamente, sicché non è da cercare lì, nei riferimenti religiosi, alcuna vera motivazione dell’agire umano, neppure dell’agire di un terrorismo che proclama apertamente la guerra santa contro i «crociati» e risparmia chi si mostra in grado di recitare i versetti del Corano. C’è davvero qualcosa di singolare nel fatto che un’Europa che è stata dilaniata tra 5 e ‘600 dalle guerre di religione, e prima ancora – nella Francia meridionale del XIII secolo – è stata testimone di una crociata contro gli eretici (sterminati, a quel che dicono le cronache del tempo, al grido: «uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi»), c’è qualcosa – dicevo di singolare nel fatto che ora quella stessa Europa non riesca a considerare seriamente la componente evidentemente religiosa del terrorismo islamico. Siamo così dimentichi di quel passato, che per timore d’essere tacciati di islamofobia ci sentiamo in dovere di dire e scrivere sempre una cosa ovvia, cioè che non tutti gli islamici sono terroristi. Come se dovessimo precisare che al principio del XIII secolo c’erano in Provenza i crociati che sterminavano gli eretici, ma c’era anche altrove San Francesco che faceva tutt’altre cose.
Naturalmente la differenza tra il fondamentalismo cristiano (chiamiamolo così) della guerra agli eretici di allora e il fondamentalismo islamista di oggi risiede in gran parte nella differente, per molti aspetti mancata, evoluzione della cultura e della religione dell’Islam rispetto a ciò che è accaduto nel continente europeo nel corso di svariati secoli.
Fatto sta che è attraverso il riferimento alla religione islamica – naturalmente una religione interpretata secondo le sue letture più estremiste e violente – che oggi i giovani jihadisti ritengono di dare una risposta al «risentimento dei musulmani di fronte all’arrogante e imperialistica civiltà occidentale», come ha scritto di recente Luciano Pellicani (L’Occidente e i suoi nemici, Rubbettino). Il fondamentalismo islamico si presenta così come l’ultima, e in un certo senso al momento unica, ideologia radicalmente anticapitalistica e antioccidentale.
di Giovanni Belardelli
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