C’è il giornale e il meglio del giornalismo culturale ne “Il libro invisibile di Pietro Citati – Racconto di un’analisi” scritto dalla giornalista Chiara Fera (Rubbettino editore, pag 104, euro 14) in libreria dal 6 dicembre. Citati, il gigante della critica letteraria e (per alcuni) “il più grande scrittore italiano vivente” che da mezzo secolo impreziosisce le pagine culturali del Corriere della Sera e de la Repubblica, un libro su Fëdor Dostoevskij non l’ha mai scritto. Nella sua sterminata bibliografia, fatta di intense e affascinanti monografie letterarie (Goethe, Manzoni, Mansfield, Tolstoj, Kafka, Proust, Fitzgerald, Cervantes e persino Leopardi), un libro sul grande russo non si trova. Non c’è. A Chiara Fera, giornalista catanzarese laureata in Lettere moderne alla “Statale” di Milano, che per scrivere il suo saggio è andata più volte a incontrarlo nella sua casa romana al quartiere Parioli, Citati, che il 20 febbraio compirà 89 anni, ha detto: «Non ho mai osato scriverlo, è troppo difficile». Invece, quel libro su Dostoevskij c’è. Sebbene “invisibile”, quel libro è stato scritto. E scritto per lettori comuni, vincendo la sfida contro l’anacronistico elitarismo della critica accademica. Chiara Fera l’ha scovato fra i numerosi articoli dedicati a Dostoevskij da Citati nell’arco di una lunga carriera che mai l’ha visto rinunciare alla sua libera voracità eclettica a dispetto d’ogni settarismo corporativo. In quegli articoli s’è acquattata l’inedita monografia e il tormentato parallelo tra Dostoevskij e i personaggi dei suoi romanzi, che Chiara Fera adesso propone ai lettori con una scrittura agevole e avvincente. Ma c’è molto altro nel saggio portato a compimento dopo più colloqui con il critico letterario e un certosino lavoro di scavo negli archivi dei due grandi quotidiani. A incominciare da un minuzioso approfondimento dell’essenza della critica letteraria in cui primeggiarono Mario Praz con la sua “esuberante immaginazione e irrefrenabile curiosità”, il poliedrico Emilio Cecchi che dal “dramma etico” passa ai fatti concreti e scopre “la virtù quotidiana del limite”, Giorgio Manganelli che pone nel Paradiso “i libri eventuali, impossibili, sognati ma non scritti” e Italo Calvino “che ama tutto ciò che è nebuloso, multiforme, indefinito”. Ma il pezzo forte del saggio è la minuziosa disamina di tutta la produzione giornalistica di Pietro Citati, a partire dalla quale l’autrice ricostruisce un’interessantissima storia della letteratura in cui compaiono gli amici intellettuali in un fervido Novecento italiano (fra tutti spicca il forte legame umano e professionale con Carlo Emilio Gadda “il più grande prosatore italiano”), per mezzo dei quali esprime le sue intriganti teorie sul testo letterario, sul lettore e sulla figura stessa del critico. E poi, i maestri della narrazione mondiale e gli stravolgimenti lirici che infervorano la modernità, senza eludere le penne mediocri che rabbuiano la letteratura dei nostri giorni. Citati, si sa, non predilige le vie di mezzo. Non ama gli scrittori tiepidi. Per lui, chi non è eccelso è da scartare. “Il libro invisibile di Pietro Citati” è la prima opera sul critico letterario che meglio di chiunque altro si muove nel groviglio meraviglioso ed emblematico – e spesso pericoloso – in cui s’incontrano giornalismo e letteratura. Ne viene fuori un ritratto intellettuale ibrido e sorprendente: un giornalista che attrae i lettori più disparati, privi di particolari competenze tecniche, verso la terra ermetica della letteratura, grazie a uno stile mai astruso e sempre coinvolgente; un critico letterario dalla mente eclettica e sconfinata, che sfiora e affonda in ogni angolo della letteratura del mondo: «Quello che io faccio è il racconto di un’analisi. Credo che la critica si faccia sempre così: non a caso, i critici che amo maggiormente sono Proust e Flaubert, ovvero scrittori che parlano di scrittori». Giornalista, critico e, straordinariamente, scrittore dal vigoroso piglio narrativo: trasformazione necessaria, spiega Citati all’autrice del saggio, per poter essere un critico letterario degno di questo nome. Chiara Fera, col suo pregevole lavoro, sottolinea l’importanza culturale dei quotidiani: la loro strepitosa capacità di essere non solo strumenti dell’informazione usa e getta, ma anche (e soprattutto) depositari di scritti che segnano e orientano la storia del pensiero umano. Non siamo più all’hegeliana “preghiera mattutina” con la lettura dei giornali, ma, nell’era del trionfo della tecnica senza scopo che rovescia la dialettica fra servo e padrone, i giornali sono tra i pochi ad opporsi “all’atrofia della memoria e alla dissoluzione dell’individuo”; e tra i pochi che aiutano a restituire senso e valore al viaggio umano, benché in tanti si affrettino, sicuri che l’imperversare del pensiero bollito sul web li stia vampirizzando, a brindare all’epilogo della civiltà della scrittura su carta. Il fatto stesso che un giornalista – critico – scrittore del talento di Citati abbia utilizzato i quotidiani («Ho vissuto tutta la vita scrivendo sui quotidiani») per raccontare non solo le angosce e i dubbi di Tolstoj, le avventure di Joseph Conrad, i fremiti di Marina Cvetaeva e il malumore di Virginia Woolf, ma addirittura per scrivere un libro sul più ossessionante e ossessionato degli scrittori, Fëdor Dostoevskij, è la prova che la carta stampata ha tuttora spalle forti per reggere l’urto di una modernità schiacciata sul presente che briga per trasformare l’homo sapiens in un innocuo e svuotato homo videns. Interessanti, poi, visto che fare critica letteraria è cosa ben diversa dallo scrivere un saggio, i “suggerimenti” di Citati: «Bisogna essere ellittici, fingere di capire quando non si ha ancora capito(…) Proprio perché non si ha tempo e lo spazio è breve, la mente scopre analogie, tenta equivalenze, si è invasi da illuminazioni(…) Il giornale dà un’alacrità e una velocità intellettuali,che il saggio e il libro non consentono».
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