Mico, Leo e Dominic Arcàdi, la storia di tre uomini. Tre vite difficili. Una vicenda che intreccia i rapporti di tre generazioni di meridionali, di italiani, nel Novecento. Il nonno, il padre e il figlio, tutti uomini di un Sud che cambia in tanti aspetti e in tanti altri resta uguale. Il protagonista principale è Leo, un ragazzo che subisce lo scherno dei suoi coetanei, è vittima dell’incapacità educativa del suo maestro e finisce per passare le sue giornate nella campagna di Santa Venere, lontano dal paese. Separato dalla vita civile diventa un ‘selvaggio’ e cade nella trappola della ‘ndrangheta e delle sue leggi spietate. Intorno alla figura di Leo si sviluppa Il selvaggio di Santa Venere, un romanzo nel quale Saverio Strati ha innestato tratti antropologici e storici che abbracciano un intero secolo. Il romanzo pubblicato nel 1977 da Mondadori vinse il Premio Campiello. Adesso lo ha ristampato l’editore Rubbettino con una illuminante prefazione di Walter Pedullà, un grande vecchio della critica letteraria italiana che di Strati è stato giovane compagno di università a Messina e poi amico per tutta la vita.
Il romanzo è costruito intorno alla formazione civile di un giovane contadino calabrese che conosce a sue spese il mondo arcaico e violento della ‘ndrangheta e fa di tutto per allontanarsene. È uno tra i primi romanzi a narrare la vita dei malandrini, il loro linguaggio, le loro ritualità, l’equivoco senso dell’onore. Come purtroppo accade anche ancora oggi, per dirla con le parole di Pedullà, Leo diventa ‘ndranghetista anche «per desiderio di stima e di rispetto … [perché] soffre di essere trascurato e isolato, umiliato e offeso dall’indifferenza altrui.» Per l’insieme dei temi affrontati siamo di fronte a uno tra i più forti e profondi romanzi di Strati, che di fatto è anche uno strumento di interpretazione storica della realtà meridionale tramite le voci dei suoi tre personaggi. Protagonisti legati tra loro come raccontano bene le parole di Dominic quando si riferisce a suo padre Leo: «Lui aveva succhiato il sapere che sapeva da suo padre, mi spiegava, e io succhiavo il sapere che era sapere di suo padre e suo insieme. Sotto sotto, a rifletterci bene, io non ero uno, ma tre: nonno, padre e figlio, ero.»
Il selvaggio di Santa Venere ha avuto una gestazione durata più di due decenni. Il romanzo è la rielaborazione, scritta in due anni e passata attraverso sei versioni, di un breve racconto di quindici pagine che Strati aveva scritto negli anni Cinquanta e a cui aveva dato il titolo Leo. In una intervista, rilasciata in occasione della prima pubblicazione del libro, Strati ha dichiarato: «La prima idea risale al 1952: ero studente a Messina, e buttavo già ogni mio spunto narrativo su di un quaderno, alla rinfusa. In quelle pagine ho riscoperto la prima stesura di La Marchesina (del 1956) e l’abbozzo del Selvaggio.» Dal breve racconto del 1952 al romanzo vincitore del Super Campiello nel 1977 e adesso, dopo quarant’anni, alla nuova uscita con Rubbettino che sta ripubblicando i libri di Strati per offrirli ai suoi estimatori e a nuovi lettori. Una nuova edizione che rimette in circolo un romanzo che scava nella realtà della Calabria e del Sud attraverso le vicende di tre generazioni di meridionali. Per farlo, il romanzo percorre l’evoluzione del mondo del Novecento e della cultura del Meridione descrivendo le logiche e i meccanismi di adesione alla ‘ndrangheta, le sue lusinghe e le sue atrocità, i suoi riti e i delitti.
La terra nel racconto di Strati è quasi una maledizione che lega i contadini a una realtà dura e violenta. Lavorare la terra sembra l’unica possibilità per sopravvivere in un mondo antico e arretrato che l’autore de “Il Selvaggio” contrappone alla modernità e alla vita civile sperimentata da chi ha viaggiato e ha visto il mondo. Il cambiamento generazionale e di coscienza civile descritta tramite i principali protagonisti è emblematica della natura profonda della narrazione dello scrittore di Sant’Agata del Bianco. Il figlio di contadini Dominic diventa insieme operaio e intellettuale critico sia del mondo primitivo e selvaggio di suo nonno Don Mico e di suo padre Leo, sia della nuova società industriale a cui lui fornisce mente e braccia. Ma Dominic sa anche che quella società gli ha permesso di costruirsi una coscienza sociale e politica che lo spinge a intravvedere come un nuovo Sud basato su una agricoltura moderna e industriale possa rappresentare l’alternativa al potere politico mafioso costruito sull’arretratezza e sul clientelismo.
La struttura temporale del racconto si fonda su elementi ciclici ma è soprattutto strutturata su un tempo stratificato con andate e ritorni. Sovrapposizione di epoche, fatti, consapevolezze e paralleli tra padri e figli nel racconto di Strati si susseguono con salti narrativi che costringono chi legge a fare i confronti tra le diverse generazioni, tra i loro modi di pensare, tra genitori e figli che nel romanzo di Strati sono in perenne contrasto. Sostenuti da radici millenarie ma proiettati sempre verso il nuovo. Anche il linguaggio usato sembra riflettere queste visioni: a volte duro e crudo quello usato dall’autore. L’uso dei termini dialettali, quelli che vengono dalla lingua di Omero, serve all’autore per descrivere in maniera più efficace e profonda la realtà che narra, in particolare quando racconta il sapere contadino o i rituali della ‘ndrangheta. Allo stesso tempo, come spiega Pedullà nella prefazione, Strati per poter farsi capire da tutti si era impossessato del migliore italiano per raccontare un mondo difficile usando con padronanza la lingua nazionale «in un romanzo che non ha peli sulla lingua e che si è fornito un lingua capace di dire tutto, il reale, l’immaginario, e l’auspicabile.»
L’importanza dell’uso del linguaggio è ribadita non soltanto nella forma narrativa di Strati, ma anche nei contenuti stessi del romanzo. Leo è costretto a lasciare la scuola e viene avviato dal padre al duro lavoro di contadino anche per le sue difficoltà di maneggiare le parole. Leo diventa il “selvaggio di Santa Venere” perché nessuno sostiene le sue debolezze. «Perché s’era lasciato affibbiare e incantare dall’ndrina?», gli chiede il figlio Dominic e lui risponde «Mah, così! Per la solitudine, per l’ignoranza e anche per le circostanze del destino.» Quando Leo viaggia e conosce altre realtà, consuetudini e luoghi differenti, riesce ad allontanarsi dal crimine anche perché acquista esperienze, nuove conoscenze, un nuovo linguaggio. Questa sua nuova coscienza contribuisce a rendere migliore anche suo figlio. Le generazioni degli Arcàdi narrate da Strati sono fatte da uomini che lasciano il loro Sud spinti dal bisogno. Uomini che vivono la necessità di cercare luoghi nuovi dove avere vite dignitose ma dove non riescono a liberarsi dalla pena dello sradicamento. Persone che vivono con la ragione i mondi che li ospitano, ma che il cuore tiene fortemente legati ai loro luoghi originari.
La coscienza del danno e dell’impatto pernicioso della criminalità è cambiata molto rispetto agli anni in cui Strati ha scritto il romanzo. Tuttavia, anche in un periodo in cui sono molti i libri che parlano di ‘ndrangheta, rileggendo il libro di Strati si avverte una narrazione in cui la presenza della criminalità è evidente e condizionante, ma la sua descrizione non è mai strumentale. La ‘ndrangheta è narrata come un elemento negativo e opprimente, ma non come unico stereotipato male. È incarnazione di violenza e potere in uomini che cercano con mezzi brutali di conquistare denaro e comando anche legandosi alla borghesia famelica e alla politica corrotta. Queste ultime incarnano forme moderne di corruttori delle coscienze e di profittatori dei beni pubblici alimentati anche da collusioni opache che, in forma non molto diversa, anche Dominic nel ‘Selvaggio’ di Strati aveva avvertito e rifiutato in quanto nemici della sua terra e del suo progresso, anche nel senso ideale che a quest’ultimo termine aveva dato Pier Paolo Pasolini.
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