Da Il Quotidiano del Sud del 23 febbraio
Sempre più si parla (troppo e a sproposito) di pietanze e di cucina. C’è qualcosa di maniacale – se non di pornografico come ha osservato acutamente Carlo Petrini – nella carrellata di ricette che dai mass media (internet compreso) ci martella ad ogni ora del giorno e della notte. Clicchi sul telecomando ed è ormai quasi impossibile sfuggire al diuturno spadellamento televisivo “a reti unificate”. Eppure il bello è che sembra accertato che si cucina molto più in tv che nelle case, viste le progressive dinamiche dei consumi di precotti, surgelati, preconfezionati ed il diffondersi esponenziale del take-away.
Un antidoto alla mercificazione ed alla virtualizzazione del cibo e della cucina può essere l’ultimo libro di Ottavio Cavalcanti, “Calabria golosa – 200 ricette di cucina tradizionale” (175 pagine, 7,90 euro) edito da Rubbettino.
Si parla di Rinascimento della cucina del Sud e all’interno di questo fenomeno c’è – come conferma Cavalcanti – anche un goloso capitolo – Calabria. Lo dicono i quattro ristoranti calabresi stellati dalla Guida Michelin 2015. Lo ribadiscono i ben 43 messi in luce nell’ultima edizione della Guida del Sole 24 ore. Ma lo dicono, in maniera convincente pure gli squisiti piatti proposti da Cavalcanti. Antropologo dell’alimentazione e studioso delle tradizioni popolari, Cavalcanti offre un ricettario che racconta la Calabria, anzi le Calabrie delle più gradevoli emozioni gustative. Piatti e preparazioni che parlano calabrese e ne svelano, a più livelli, i tanti accenti e le tante cucine.
Dopo una densa introduzione (“Mangiare in/con tutti i sensi”), l’autore, che tra l’altro cucina con passione e competenza, illustra ricette che coprono l’intera mappa – geografica, storica, sociale, ecc. – della gastronomia calabrese. Dalla Pasta al forno col polpo, ampiamente presente anche in Grecia, alle Penne alla maniera di Tropea (con pomodori secchi, noci e pecorino), alle Polpettine di mais (farina di granturco, trito di maiale e mollica di pane) di Buonvicino – ducato di quel Cavalier Ippolito Cavalcanti antesignano d’inizio ‘800 della gastronomia meridionale.
Tanti modi prelibati di dire “ci siamo”, insomma, dal Pollino allo Stretto. Ecco, ancora, la Capra alla maniera di Bova (“Alla vutana”) con pomodori, cipolle di Tropea, alloro, basilico e vino bianco e quella “ara carcàra”, tipica dei vasai di Bisignano che usavano per la cottura le fornaci (“carcàre”) ancora calde delle ceramiche. Nel capitolo “quinto quarto” c’è la ghiotta Trippa alla maniera di Crotone di pitagorica essenzialità e non mancano ricette strettamente marinare, l’Alalunga in agrodolce alla bagnarota nè preparazioni arcaiche di francescana semplicità come la “Pitta ‘i maju” la focaccia coi fiori di sambuco mentre, fra i dessert, spiccano le Varchiglie , a base di mandorle e cioccolato fondente, che ripropongono tale e quale una ricetta trecentesca del convento cosentino delle Carmelitane Scalze.
La lettura del libro di Cavalcanti – che si avvale delle belle tavole fotografiche di Emilio Arnone – conferma una mia convinzione già ribadita più volte: anche a tavola non si può parlare di Calabria ma delle Calabrie. La cucina riproduce l’immagine di una regione che, se per un verso è consegnata all’immaginario collettivo in una unitarietà mitizzata – ma più spesso sottovalutata -, in realtà è caratterizzata da una varietà di situazioni e di ambienti che ne fanno uno spazio complesso e variegato.
Anche la cultura materiale ha piena dignità e si può ripercorrere la storia di questa terra attraverso le vicende delle coltivazioni, dell’agroalimentare e del cibo. Il libro di Cavalcanti offre testimonianze esaurienti a conferma che qui si sono mescolate e stratificate influenze, modi di vivere e tradizioni, certo in qualche misura sopraffatte o minacciate d’estinzione ma ancora in buona parte vive e vivaci e persino, in qualche caso, assolutamente da scoprire. L’autore arricchisce ogni capitolo di “focus” su produzioni tradizionali e tipicità spesso sconosciute fuori dall’ambito regionale: il peperoncino, gli extravergini a base di cultivar di grande interesse come la carolea, la rossanese e la cassanese, il pane (anzi i pani), i vini blasonati come i classici Cirò, Greco di Bianco e Lamezia e i nuovi prodotti della ricerca enologica oggi tesa soprattutto a riscoprire il ricchissimo patrimonio varietale autoctono.
Poi ci sono particolari varietà di ortaggi (le cipolle rosse di Tropea, la patata silana, i meno noti pomodori di Belmonte) e di formaggi (il Caciocavallo silano, il Pecorino Crotonese e quello del Poro, i Butirri, la Giuncata, il caciocavallo di Ciminà), pesci come il tonno e il pescespada, eccezionali preparazioni come la sardella (a base di novellame di sardine), la sopressata, la Nduja, la liquirizia, i torroni di Bagnara, i fichi secchi e frutti straordinari come le clementine, il fantastico cedro, il Bergamotto.
Trovo più che giusto mettere in luce questo ricco “paniere” di golosità anche per ricordare che non ci sono solo gli chef-star. E per non dimenticare, perciò, che cuochi, ristoranti e valutazioni stellari non esisterebbero senza i contadini, i pescatori, i pastori, i casari, i vignaioli e i cantinieri e se non ci fossero tutti gli artigiani che, pur nell’ombra e in retrovia, sono attivi protagonisti-artefici del patrimonio gastronomico regionale.
di Gianfranco Manfredi
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Un piccolo atlante di golosità calabresi
di Gianfranco Manfredi