Heimat e Homeland sono termini che rinviano a un campo semantico comune che ha a che fare, tra le tante altre accezioni possibili, con la “casa” e con il luogo natio. Due termini densi del tedesco e dell’inglese che conoscono una stabile “fortuna” per dire di sentimenti e stati d’animo non diversamente designabili, spesso percepiti come sfuggenti, non estranei a slittamenti di senso, non facili da incapsulare in definizioni sicure. Heimat può essere anche la “casa”, ma non è soltanto la “casa”, associato com’è nella lingua e nella cultura tedesca a una costellazione concettuale molto più ampia, tanto da renderlo intraducibile, senza corrispondenti precisi, nelle lingue neolatine. Homeland, da parte sua, è la “casa”, la terra natia, il paese, la patria e molto altro ancora, in un denso pluriverso di significati.
Il paese e la casa, tra Calabria e America
E il paese e la casa costituiscono la coppia concettuale da cui non si può prescindere quando ci si immette nelle pagine di un volume, non per nulla intitolato Homeland. Sulle strade di casa del mio paese di là (Rubbettino, 2021), in cui Vito Teti, per parole e immagini (molte e con il fondamentale contributo fotografico anche del compianto Salvatore Piermarini), riprende un mai interrotto percorso, esistenziale e antropologico, cominciato con due libri che proprio in quei due termini avevano già la loro chiave di volta. Il paese e l’ombra era uscito per l’editore Pellegrini nel 1982, mentre Le strade di casa. Visioni di un paese di Calabria (coautore Salvatore Piermarini) era stato pubblicato da Mazzotta l’anno successivo e in quei due libri di questo si cominciava a parlare, di appaesamenti e spaesamenti, del sentirsi fuori posto altrove e a casa propria, di spostamenti ed esodi reali e di “falsi movimenti”, del Paese Uno rimasto in Calabria e del Paese Due, il Paese Doppio, il Paese Sosia, sorto in America.
Calabria e America, casa e paese, partenze e restanze, le coppie tematiche che i lettori di Vito Teti ben conoscono si formano in quegli anni. Ma anche il “paese dentro” nasce in quel contesto, il paese che ciascuno porta con sé quando è fermo e quando è in viaggio, il paese composto da tanti paesi e da tante “patrie”, il paese che è luogo antropologico e che, talvolta, rischia di diventare – per esodi, spopolamenti, abbandoni – “non più luogo”, perché, alla fine e comunque, “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti” (C. Pavese, La luna e i falò).
L’America è qua
Di tutte queste cose dice questo recente Homeland, ripercorrendo storie di emigrazione, di cosmi e microcosmi, di nostalgie e attese, di paesi che mutano pur restando all’apparenza immobili e di retoriche consolatorie che ammantano il mondo di parole come “vero”, “autentico”, “tradizione”, “conservazione”: “Mi ripetevo la dolorosa, innocente e consolatoria menzogna, tante volte ascoltata dai racconti dei paesani rimasti e partiti, che il ‘vero paese’ era quello di Toronto, che il dialetto, le tradizioni, le feste, i riti, i cibi ‘autentici’ del paese venivano conservati ormai soltanto a Toronto […], mentre nel paese tutto era cambiato, tutto si era trasformato e tutto era in disgregazione. Questa menzogna, o parziale verità, era complementare a quella contenuta nell’espressione ‘l’America è qua’ che gli emigrati che tornavano dicevano ai paesani e ai familiari quasi per prendere atto di un mutamento avvenuto nei paesi calabresi, grazie anche al loro sacrificio […]”.
Le strade e le abitazioni dei luoghi dell’emigrazione diventano “strade di casa”, piene di bandierine e bandiere tricolori che sventolano orgogliose per un campionato del mondo di calcio vinto dall’Italia, di madonnine di gesso nel garden, di magliette della Juve e di gagliardetti dell’Inter. Le case all’esterno accade che siano addobbate con le immagini dei santi del paese e anche l’interno riflette questo desiderio di non rescindere nel nuovo mondo i legami con il vecchio, come capita nella casa dei genitori di Vincenzo Sisì, il presidente del Club S. Nicola: “L’interno è tutto un altarino con angoli in cui santi, defunti, familiari hanno una collocazione non casuale, bene organizzata. La disposizione delle immagini dice molto sul modo di percepire il legame col passato, col paese, col nuovo mondo. Il tentativo è quello di tenere tutto unito, di non smarrire nulla della vita passata, cui non si vuole tornare, e della vita presente, cui ormai ci si è affezionati”. Il paese si duplica, raddoppia e il mondo nuovo americano diventa un sosia del mondo d’origine, come si vede nel caso esemplare del rapporto col cibo, intriso di ragioni culturali e simboliche: “[…] La jarda (garden), dove si coltivano cavoli, rape, fagiolini, pomodori, peperoni, melanzane, diventa il doppio dell’orto del paese. Il sello (cellar) dove vengono conservati salami, prosciutti, formaggi, olive, salse, vino, essenze, peperoncino, sottaceti, sottolio, diventa il doppio della cantina del paese (magari mai posseduta, soltanto sognata)”.
Adesso
Eppure anche questo mondo doppio, che sembra voler replicare, nel rapporto con una presunta tradizione e con i “miti dell’origine”, il primo mondo, quello da cui si è partiti, si trasforma radicalmente, come Vito Teti osserva in occasione di un suo nuovo viaggio oltreoceano, agli inizi degli anni Duemila: “L’emigrazione, fatta di arrivi a Halifax, con valigie di cartone ricolme di pianti, speranze, pentole, indumenti, talvolta di cibo, è finita. Sono scomparse anche quelle comunità disposte attorno a College Street, le tante Little Calabria, all’interno delle Little Italy […]”. Ai calabresi partiti non piace essere definiti “emigrati”, sono “canadesi di origine calabrese o calabresi del Canada”. Molto è cambiato: i giovani sanno poco del paese dei padri, parlano l’inglese e la loro ombra non risiede più in quel paese dall’altra parte dell’Oceano, ma si lega all’universo americano, alle comunità che lì sono sorte a opera delle loro famiglie di provenienza, nelle strade “attorno a College, St. Claire e Dundas”. Si assiste alla “dissoluzione di un mondo”, con le comunità “residuali in attesa di essere assorbite, integrate, come è avvenuto per altre minoranze”. La casa, tuttavia, nei testi degli autori canadesi di origine italiana – Antonino Mazza, Giovanna Riccio – appare in “tutta la sua centralità simbolica, torna come luogo dei ricordi, dei sogni, resta uno spazio mitico di riferimento. Luogo della nostalgia e dell’incanto, ma anche segno di una fine avvenuta”. La casa. Come le tante case che Vito Teti ha vissuto, abitato, sognato a San Nicola da Crissa e lontano da San Nicola.
a casa della Cutura prima e poi quella della Papa. La casa al numero 245 di Lisgar Street nella quale, a Toronto, ha abitato il padre emigrato, la casa dei “trentatré pani”, così chiamata perché ogni mattina passava il Giotto, con un furgone, per depositare un panetto per ciascuno dei trentatré abitanti. La casa è in un orecchio cosmico, come recita una poesia di Antonino Mazza: casa del sole, delle nuvole, dell’infanzia, del mito, delle mandorle e degli ulivi. Finché, adesso. Adesso, osserva nelle ultime pagine Vito Teti, è “un finimondo”: morto diciannove anni prima il padre, è morta anche la madre ed è morto Salvatore Piermarini, “cugini e parenti, amici e conoscenti sono andati via da soli senza un sorriso senza una carezza”. Adesso l’ultimo abitante della ruga ha 89 anni e vuole raccontare la sua storia di emigrazione. Adesso, per i figli, le case “sono state sempre chiuse e vuote, non conoscono volti, storie, drammi, pianti, generosità, litigi, speranze di chi le abitava. Il vuoto del paese è quasi naturale e quelle case sembrano nate vuote e disabitate”.