Da Libero Quotidiano dell’8 dicembre
«Se guardi l’Italia dall’esterno sembra impossibile che sia in crisi. Se la osservi dall’interno sembra incredibile che si regga in piedi. Fuori dai propri confini l’Italia è un marchio prezioso. Dentro quei confini è vissuta come un marchio d’infamia. Fuori è sintomo di qualità, dentro sospetto di disfacimento». Lapidarie ma precise le parole di Davide Giacalone, firma illustre di Libero, nel suo ultimo lavoro: Sindrome Calimero. Per l’Italia che corre contro quella che le sega le gambe (Rubbettino, pp. 240, euro 15).
Eh sì, è proprio come il piccolo Calimero la nostra Italia, lercia e querula. Con il passar del tempo siamo sempre più abituati ad autodenigrarci. Non passa occasione per incentivare le flagellazioni. Siamo i più brutti, abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, non esiliamo a truccare i conti… e su su, ben davanti a noi, si trovano i nostri modelli ideali di austerità, quelli che dovremmo seguire per trovare la giusta ispirazione. La cultura della lamentazione trionfa. Eppure in Europa, una volta emancipati dal loglio della cattiva informazione, scopriamo che non siamo messi proprio male.
Gli italiani sono i terzi contributori dei fondi e delle istituzioni europee. Al funzionamento della macchina, se i tedeschi la sostengono con il 27% e la Francia con il 20%, noi profondiamo ben il 18%: siamo i terzi, e tutto in proporzione al nostro Pil. Dietro arrancano gli altri, quelli che amano farci le prediche. «Ma questi dati sono in parte ingannevoli», sostiene Giacalone, «perché l’Italia è sì il terzo creditore, ma, forse, è il primo netto».
Quando nel 2010 scoppia l’affaire greco i sistemi bancari più esposti dinanzi al debito di Atene sono la Germania con il 42%, la Francia con il 32% e poi a scendere fino ad arrivare all’Italia, che copre appena il 5%. L’esposizione dei sistemi creditizi europei non dipende dalla loro generosità. A spingere le banche tedesche e d’Oltralpe a investire nei titoli del debito ellenico non era il desiderio di salvare Atene, ma l’altissimo rendimento di quei titoli rispetto ad altri. Così quando la bolla scoppia i più esposti gridano aiuto per evitare di far implodere il proprio sistema bancario. Allora si corre ai ripari attingendo al primo fondo di salvezza, finanziato con il solito sistema proporzionale al Pil di ogni Paese: l’Efsm. Pur esposta solo per il 5% l’Italia contribuì in misura ben maggiore al salvataggio delle banche tedesche, francesi, belghe e olandesi. «Quindi: sì, siamo i terzi creditori, ma considerato che il primo e il secondo sono quelli che hanno preso più soldi per le loro banche, è probabile si sia i primi», ribadisce Giacalone.
Ma allora perché tutta questa disistima riversata sull’Italia? Perché ci pensiamo sempre come Calimero? Siamo indubbiamente un colosso industriale con non molti concorrenti. Soprattutto quando si pensa all’export che malgrado la crisi e lo schianto del mercato interno ha retto le sorti della nostra economia. Uno dei limiti oggettivi del nostro sistema, secondo Giacalone, sarebbe la partecipazione al lavoro. Le sue basse percentuali ci tengono al palo impedendoci di decollare. «Per i cittadini fra i 20 e i 64 anni, è ferma al 59.9% (fra i 15 e i 64, secondo quanto impostato dalla contabilità europea, quindi quello che vale per Eurostat: il 55.7, mentre la media europea è 65%). Lavora un italiano su tre. Peggio di noi solo la Grecia (53.3) e la Croazia (59.2). Ma noi siamo comunque la seconda potenza industriale europea!».
Per uscire dall’impasse occorre battere tre strade. Evitare di far crescere il debito che alla lunga rischia di soffocarci e ricordarsi che «l’Italia che, in questi anni difficilissimi, ha funzionato meglio è quella che esporta, la cui competitività è assicurata dalla qualità dei prodotti e dalla capacità di capire e navigare la globalizzazione, pur scontando gli enormi svantaggi (fiscali e regolamentari) di un ecosistema interno ostile». E sono le prime due. E fin qui nulla di nuovo. La terza però è la più difficile da intraprendere, anche se forse quella a costo zero. Essa dovrebbe farci uscire da un deficit culturale. Tra gli italiani manca la cultura del fallimento e quindi la cultura del successo. Insomma, difettiamo del coraggio di osare. Fallire è un’onta enorme per la psicologia nazionale non il frutto di un’azione magari innovativa. Se si debellasse questa paranoia pure Calimero evaporerebbe e l’Italia potrebbe riprendere a correre. Sempre che, aggiungiamo noi, ritrovi anche una visione, una certa idea d’Italia, che la porti lontano.
di Simone Paliaga
clicca qui per acquistare il volume con il 15% di sconto
Altre Rassegne
- libero.it 2016.01.18
Intervista a Davide Giacalone - Libero Quotidiano 2015.12.09
Un paese bloccato dalla “Sindrome Calimero”
di Simone Paliaga