Filippo Veltri intervista Franco Ambrogio. In realtà le domande sono anche risposte. Un fecondo intreccio, circolare. Da qui il dialogo che dura quanto il racconto che è stato licenziato nei giorni scorsi: “Regioni – 50 anni di fallimenti” (Rubbettino, pag. 115, 12 euro). Gli autori hanno formato un lungo e solido sodalizio e, ora, provano a fare un bilancio sulla presenza istituzionale del massimo organismo nella vita dei cittadini. Veltri e Ambrogio hanno respirato l’aria della stessa città, Cosenza, dello stesso partito, il Pci, del medesimo afflato di vivere la militanza comunista, di stare nella società, di analizzare i problemi, di individuare i limiti e i lacci, sempre in una visione generale, sottraendosi all’angusto orizzonte locale.
In Calabria gli autori che si sono misurati su questo tema non raggiungono le dita di una mano. Uno di questi è Aldo Varano che ha scritto, tra i tanti prodotti pubblicati, un saggio che è diventato una pietra miliare in questo tipo di ragionamento. L’altro, su tutt’altro versante metodologico, è il sociologo Vito Barresi che nel 2014 scrisse un corposo volume, 448 pagine, “da Guarasci e Scopelliti” (edito da Guzzardi di Cosenza). Si trattò di una sorta grande Bignami del regionalismo calabrese, un manuale pratico degli eventi e dei personaggi che popolarono quelle stagioni istituzionali, con riflessioni e giudizi
dell’autore.
Il saggio di Veltri e Ambrogio, alla fine della sua lettura, pone un dilemma, una domanda. Cosa sarebbe stata la Calabria se non ci fossero state le regioni? Migliore o peggiore? Come? E di quanto? Forse sarà un
sequel editoriale. È singolare, ma fino a un certo punto, che, all’alba della nascita
delle regioni, il più fiero oppositore di quel parto fu il liberale Giovanni Malagodi, che scriveva «Le regioni significano un’immensa spesa!», «Avremo una doppia burocrazia …. Sono cose che costeranno nuove
tasse e nuovi debiti, che sono economicamente dannose e socialmente inutili; sono cose che servono soltanto per iniziare la liquidazione dell’economia di mercato». Erano gli anni ’60, il boom economico stava
già passando e si udivano i segnali della contestazione prima e del terrorismo dopo.
Ora i tempi sono ormai maturi per fare un bilancio sul regionalismo italiano. Bilancio che, a giudicare da ciò che il covid ha messo impietosamente in luce, non può certo essere positivo, per lo meno non
per tutti e non per tutte allo stesso modo. “La persistenza del municipalismo – osserva Ambrogio, ricordando la contrapposizione tra Catanzaro è Reggio per la scelta del capoluogo – è, ancora oggi, un male storico nella vita civile, pubblica e istituzionale della Calabria, figuriamoci 50 anni fa. Una visione regionale era, all’epoca, del tutto assente nei gruppi dirigenti. E ancora oggi non si sono fatti passi decisivi in questa direzione». Infatti, c’erano i carri armati a Cannitello pronti a intervenire.
Questo è il punto centrale del saggio. E rimanda al lavoro di Varano, il saggio “La città dolente” (Einaudi, 1997), dove l’autore intervista l’ex sindaco di Reggio Calabria, Agatino Licandro, che svuota il sacco raccontando gli intrecci politico-affaristi della sua città, la genesi del “Decreto Reggio”, da allora ancora non del tutto speso, la creazione della seconda Corte d’appello come stato di necessità. Insomma, eventi che l’odierno libro colloca, molto sfumato, sullo sfondo. Il libro di Veltri e Ambrogio è duro e impegnativo, anche se scorrevole e riflessivo.