Da Il Tempo dell’11 gennaio
Succedono delle cose curiose nel mondo dell’editoria italiana. E guarda caso succedono attorno a un personaggio che, checché se ne possa dire, resta una delle icone pop della nostra narrativa e del nostro immaginario nazionale: Benito Mussolini. E insomma, il fatto curioso è che domani nelle librerie usciranno i diari di guerra dell’allora non ancora Duce, buttato a fare il caporale su uno dei fronti più duri della Grande Guerra. E qual è la notizia, a parte l’interesse storiografico – e di buona lettura – di questi diari? È che i diari usciranno con tre curatele diverse per i tipi di tre differenti case editrici.
E così, entrando in un qualsiasi bookstore, potremo scegliere tra “Giornale di guerra 1915-1917. Alto Isonzo-Carnia-Carso” per la Libreria editrice goriziana, a cura di Mimmo Franzinelli, “Il mio diario di guerra” per il Mulino a cura di Mario Isnenghi e “Giornale di guerra 1915-1917” per Rubbettino a cura di Alessandro Campi. In questi casi, visto che si tratta dello stesso materiale (e ci sarebbe tanto da ragionare su come certi avvenimenti accadano in un’epoca in cui le case editrici centellinano con gran parsimonia la stampa dei volumi, per evidenti ragioni di crisi delle vendite e asfissia del mercato), è e sarà interessante leggere le interpretazioni che i tre storici offriranno del materiale preziosissimo che è, ché di questo si tratta, della collazione dei reportage di guerra che il caporale Mussolini inviò al Popolo d’Italia fin quando rimase al fronte, prima cioè di essere ferito gravemente da una granata in esercitazione e venire congedato a pochi mesi dal disastro di Caporetto.
Dei tre storici, Franzinelli sicuramente è il più “ideologico”, prodotto di una storiografia di sinistra che anche nei resoconti dal fronte del giovane Mussolini intende trovare la radice ideologica del male assoluto che si affaccerà in Italia di lì a pochi anni. Mario Isnenghi, già qualche anno fa, nella ricompilazione di una sua importante opera sulla Prima guerra mondiale aveva ammesso di aver più o meno volontariamente tralasciato i diari mussoliniani che, invece, rispetto ad altre opere di valore letterario più o meno significativo (il catalogo è sterminato, e ve lo risparmiamo), mantengono la freschezza di una scrittura contemporanea e non manierosa, visto che il caporale Mussolini li scriveva pronti per essere pubblicati (e con gran successo) a puntate sul suo giornale.
Il gap viene colmato in questa edizione per il Mulino, ma il punto è: ha ragione Isnenghi a rileggere queste pagine come una sorta di allenamento ideologico di Mussolini al fenomeno fascista che creerà di lì a pochi anni? Oppure non è più nel giusto Alessandro Campi quando invita, anche con il gusto di una “buona” lettura, a vedere queste pagine come un vero e proprio reportage ad opera di un ex socialista convertito all’interventismo che, al pari di molti suoi commilitoni, esaurisce l’entusiasmo combattentistico poche settimane dopo essersi ritrovato a marcire in trincea in compagnia di umido, fango, topi e bombe nemiche che ti piovono sulla testa come gocce amare nel pieno della notte?
In effetti, basterebbe fermarsi a questo dato – la disillusione e lo sfilacciamento dell’ardore militante anche delle punte culturali e ideologiche d’avanguardia della generazione che va a farsi massacrare sui fronti della Grande Guerra – per rendere interessante la lettura dei diari mussoliniani (a proposito, con interesse Campi fa notare che, nella prima edizione in epoca fascista, Mussolini appositamente taglia qualche pagina di marca smaccatamente anticlericale…), senza per forza dovervi scorgere qualche indizio pregnante e appetitoso dell’indirizzo ideologico e politico che Mussolini assumerà nel giro di pochi anni. In effetti siamo nei primi anni del conflitto, e soprattutto prima di Caporetto, per cui è praticamente impossibile, anche per un “visionario” come il caporal Mussolini, immaginare la fine della guerra, i suoi esiti e l’evoluzione in chiave ideologica di quel culto della trincerocrazia che il futuro Duce esalterà sì, ma dopo aver lasciato gli scarponi nei magazzini dell’esercito per tornare in abiti borghesi.
E dunque accontentiamoci di pagine di grande interesse storico e giornalistico, una riflessione a caldo sul grande massacro in cui gli italiani, bene o male, hanno messo pietre pesanti per costruire la propria identità nazionale.
di Angelo Mellone
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