Da Il Quotidiano del Sud del 4 maggio
Non so voi come vi rapportiate di fronte ad un libro nuovo, magari andate a leggere i risvolti o la quarta di copertina per saperne un po’ di più, oppure consultate l’indice ed iniziate a sfogliarlo,giusto per capire come è composta la pietanza che avete di fronte. Perché un libro nuovo è come il cibo, può essere ricco e sontuoso, oppure street food gustoso. Quando mi sono arrivate le bozze di “Ti Ho Vista Che Ridevi” (Rubbettino editore, pag. 214, euro 14), non l’ho potuto fare, non avevo questa possibilità, visto che mancava la copertina, ma ero ugualmente emozionato per la seconda opera del collettivo Lou Palanca. Non nascondo una certa partigianeria, sono un amante dei Wu Ming e ho davvero amato Blocco 52, il primo libro del gruppo calabrese, per cui alla fine ho fatto l’unica cosa possibile: ho iniziato a leggerlo. All’inizio c’è una bella prefazione di Carlo Petrini, lo scrittore gastronomo ideatore della fondazione Slowfood, e una doppia dedica, la prima a Georges Wolinski, il famoso disegnatore che ha trovato la morte nella strage alla redazione di Charlie Hebdo, e a Nuto Revelli, grande scrittore e partigiano italiano nella seconda guerra mondiale. Solo da questo capisci che questo piatto parla di libertà, di libri, di storie e ha il profumo delle Langhe oltre che della Calabria. Proprio il nome di Revelli però mi fa pensare all’argomento forte del libro e penso, andando avanti nella lettura, a “L’anello forte – La donna: storie di vita contadina”, dove lo scrittore raccolse le vite di molte donne della provincia piemontese, le cui vicende diventano significative per narrare un cambiamento antropologico del nostro paese. Perché quello dei Lou Palanca è un libro di donne, nonostante il protagonista sia un uomo. Luigi, infatti, è il personaggio principale all’inizio, giornalista, calabrese, distaccato, a volte freddo a volte distratto, come se il resto del mondo, in fondo, non gli interessasse più di tanto. Lui sta bene così, senza particolare legami affettivi, vive solo, ha una fidanzata che vede ogni tanto, ma non più di tanto, e coltiva qualche interesse. Eppure succede un fatto, perché qualcosa succede sempre nei romanzi, che gli cambia la vita: muore la madre. Un fatto naturale, una tragedia naturale che è nell’ordine delle cose, inutile illudersi, ma c’è una conseguenza che scompagina la sua vita: una lettera. C’è una storia in quella lettera, anzi una verità che Luigi riceve dalla madre: la donna che l’ha allevato e cresciuto non è sua madre.
Ogni romanzo, ogni bel romanzo, in fondo è una macchina del tempo e una mongolfiera, un meccanismo che fa muovere il lettore nello spazio e nel tempo, così anche qui passiamo dalle lotte degli agrari degli anni sessanta nel catanzarese, alle Langhe di Slow Food, del benessere del territorio, del barolo pregiato. Anche quella terra ha un passato, quello di un paesaggio uscito dalla guerra, dalle lotte partigiane, dei bacialè, i ruffiani piemontesi, che vista la scarsità di donne nella campagna “importavano” queste calabrotte direttamente dal sud per farle sposare con i contadini poveri ma possidenti prima del boom dell’agricoltura e del loisir enogastronomico. Sembra quasi esserci un parallelo fra questi territori, come ho chiesto a Nicola Fiorita, membro del collettivo Lou Palanca in una conversazione telefonica. Lui mi conferma questa mia sensazione dicendomi che si tratta di due territori agricoli usciti dalla guerra, poveri, con delle possibilità. Le Langhe però sono scarsi di donne e quindi nasce e prosegue questa immigrazione interna matrimoniale, come racconta Laura Marchesano nel suo libro “Sposarsi altrove. Migrazioni matrimoniali in Italia e crisi della società contadina (1950-1975)”.
Così i bacialè avevano capito tutto all’epoca, avevano compreso anche come da convincere non fosse il padre delle ragazze designate, ma la madre, segno di un soggiacente matriarcato in molte società rurali. Sembra uno scambio alla pari, ma alla fine fu la Calabria quella che ci perse, perché le donne sono ricchezza. Però il Piemonte non ha il mare. Ha qualcosa di diverso però. Una classe politica più all’altezza del compito e degli uomini che si sono rivelati importanti nella sua storia, testimoni, pensatori e imprenditori, come Revelli, Petrini, che oltre a Slow Food avrà l’idea dell’Università di Scienze Gastronomiche di Bra e Ferrero, il cui nome è uno dei brand più conosciuti al mondo.
In questo scenario arriva Luigi per trovare sua madre, quella vera, con sua sorella Rosaria ed Elisa, del quale ha sempre più bisogno e con la quale instaura un rapporto sempre più condiviso e vero. Bello il confronto fra madre e figlio che si ritrovano, le emozioni si sentono e scorrono dalle pagine al lettore, ma Luigi non trova solo la madre, alla fine trova un’intera famiglia. Di donne. Dopo Dora, la madre fuggita, che in cuor suo sapeva che avrebbe rivisto il figlio, a Dora la nipote che ora combatte coi NoTav a Chiomonte contro la distruzione di una valle, in una grande opera voluta, non si sa bene da chi, ma non dagli abitanti del suo territorio. Trova una sorella, una nuova, perché Rosaria gli sta davvero vicino, ma la nuova, quella che tiene in vita l’azienda di famiglia al nord, è una scoperta che inizia a conoscere. E si ritroveranno tutti sulle spiagge lunghe e bianche del sud, la famiglia e gli amici, insieme, in un mondo non ricomposto, ma assemblato, unito, fatte di parti vecchie e nuove che si abbracciano, di storie che si confrontano e si incontrano. E si incontrano anche con una ragazza siriana arrivata in uno dei barconi che hanno lasciato il loro paese di origine, con un bambino, figlio di uno dei capi della rivolta studentesca, della primavera araba, che da speranza si è trasformata in incubo ed arriva a Gerace, dove realmente è in atto un esperimento di case e accoglienza ai sopravvissuti. Una nuova vita. Come la cercava Dora, come la cerca Luigi. Una nuova terra.
Stavolta Lou Palanca riesce a toccare delle corde emotive, per temi e tecniche narrative, che penetrano dentro. Non deve essere facile lavorare in collettivo: ognuno prende una voce, una parte e scrive. Tutti leggono e modificano. Si mettono da parte i dissensi e gli egoismi. Non c’è una dittatura della maggioranza, perché se non si è d’accordo allora si cerca un’altra soluzione che si realizzi con il contributo di tutti, si va avanti, un passo in più cercando anche di cambiare passo qualche volta. Una best practice, come si dice anche a Bruxelles, di cui bisognerebbe tenere sempre conto.
Ho letto questo libro a cavallo fra il 25 Aprile, il primo maggio e l’ennesima tragedia del Mediterraneo. In mezzo a tanti insulti e parole deliranti certe storie danno la misura che in fondo abbiamo ancora tanto da scoprire e da imparare sugli altri e soprattutto su noi stessi, abitanti di un unico grande territorio.
di Simone Corami
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