Da Il Corriere della Sera del 9 dicembre
Le mafie sono nate tutte a Sud, tutte all’inizio dell’Ottocento, e tutte sotto il regime borbonico. Lo sostiene Isaia Sales nel suo ultimo libro (Storia dell’Italia mafiosa, Rubbettino editore) e già questo potrebbe bastare per togliere il sonno ai nostalgici di Franceschiello. Ma nel libro non c’è solo questo. Si dice anche, e si documenta, che se ciò è avvenuto nel Regno delle due Sicilie e non altrove, non è per una congiunzione astrale o per uno scherzo della Storia, ma semplicemente perché qui, e solo qui, c’erano tutte le condizioni politiche economiche e istituzionali perché ciò accadesse: il regime autoritario che spingeva le classi dirigenti dissidenti a organizzarsi in sette segrete e quelle popolari ad imitarle in peggio; la tendenza dei Borbone di legittimare i fuorilegge arruolandoli nelle loro «polizie» e per le loro guerre; il sistema carcerario che favoriva, per affollamento e assoluta mancanza di garanzie, la formazione «professionale» di violenti pronti, una volta tornati in libertà, per il mercato criminale.
L’atto d’accusa è dunque diretto all’intero sistema vigente nel Regno, agli interessi materiali che qui si manifestavano e alle rendite che esso proteggeva. È qui la causa, dice Sales. Altro che origine razzista o antropologica del fenomeno mafioso! Una tesi molto forte, come si vede, mai sostenuta neanche dal più convinto assertore della rivoluzione risorgimentale: e Sales non è certo tra questi. Il suo ragionamento infatti continua. E se lo Stato borbonico ha generato le mafie, dice, lo Stato unitario le ha «nazionalizzate». Due analisi, dunque, meritevoli entrambe di una uguale considerazione. Si ha l’impressione, invece, che con la paradossale complicità dello stesso autore, la prima venga del tutto sacrificata alla seconda. Sales, ad esempio, sostiene che la vera legittimazione delle mafie, il loro «farsi stato», avviene solo dopo l’Unità, quando c’è da raccogliere consenso elettorale e la politica si apre alla contaminazione criminale. In realtà non è proprio così. Lo stesso Sales ricorda infatti non solo gli sforzi di Silvio Spaventa «per cacciare via dalla Guardia nazionale i camorristi» e la bonifica anche sociale che era nelle intenzioni dell’operazione Risanamento, ma soprattutto che la prima legittimazione mafiosa non avvenne affatto ad opera di Liborio Romano per conto di Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele, quando la criminalità organizzata fu cooptata nell’opera di consolidamento del nuovo Stato, bensì prima. Prima di quella di Liborio Romano, ci fu quella praticata con il cosiddetto metodo Maniscalco, famoso capo di polizia in Sicilia tra il 1849 e il 1860. E prima ancora ci fu quella del Cardinale Ruffo, che non si fece scrupolo di aprire le braccia al banditismo per muovere contro la Repubblica napoletana del 1799. Un vizio radicato, a dirla tutta. Eppure, come si diceva, Sales tiene di più alla seconda parte del suo ragionamento, lì dove sostiene che la mafia non è affatto una parentesi della nostra storia nazionale, ma ne è invece un elemento costitutivo e poi costante. Il dato evidente di una mafia attualmente radicata anche al Nord e a Roma non è altro, a ben vedere, che la conferma dell’assunto; del fatto, cioè, che non erano e non potevano essere ragioni esclusivamente geografiche quelle che la determinavano.
Ciò che preme giustamente a Sales è respingere, come si è detto, non solo le ricostruzioni razziste, ma anche quelle culturaliste: la mafia come conseguenza di una specialissima cultura meridionale, per intenderci. E tuttavia anche qui non tutto fila liscio. Ciò che ora si condanna, il ricorso al contesto come spiegazione di tutto, è stato infatti in passato esaltato per ragioni diametralmente opposte, per sottolineare cioè l’eccezionalità della condizione meridionale. Il ragionamento era il seguente: poiché al Sud c’è la mafia, e la mafia è generata dal degrado sociale e ambientale, lo Stato deve finanziare la rimozione della causa per sperare di debellare l’effetto. E giù, di conseguenza, la continua richiesta di finanziament mai ritenuti sufficienti. Rivendicazionismo e assistenzialismo hanno, purtroppo, anche questa comune origine strumentalmente «antimafiosa». E nessuno, nel tempo, è sfuggito alla trappola: né la destra né la sinistra.
A questo proposito, con malizia si potrebbe allora obiettare che la svolta operata da Sales arriva in ogni caso tardi, quando i rubinetti della spesa pubblica sono ormai a secco; e che molti sprechi e molti errori strategici nel Mezzogiorno si sarebbero potuto evitati se solo le analisi fossero state aggiornate in tempo, per privilegiare magari, e senza pregiudizi ideologici, gli aspetti repressivi della vicenda criminale. Ma ricordare questi oggi servirebbe a poco. L’importante, invece, è aver riaperto la riflessione sulla storia e sull’attualità. E Sales lo fa come sempre molto bene: con punti di vista forti e chiari.
di Marco Demarco
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