Nessuno meglio di Gianluca Zanella ha condensato in pochi tratti l’avvincente biografia dello scrittore molisano: «Classe 1925, venuto a mancare nel 2018 a Lowell, Massachusetts. Dimenticato per una serie di circostanze, non ultima quella di aver militato nella Repubblica sociale e di averne scritto, ma più probabilmente cancellato per non aver mai davvero messo radici in nessun luogo così a lungo da lasciar traccia della propria presenza, e forse — anzi, molto probabilmente — per ripicca, per aver messo alla berlina con parole sferzanti e con un’opera godibilissima (Il mestiere del furbo, definito dal critico Eugenio Ragni come un “suicidio annunciato”) il jet-set letterario degli Anni Cinquanta, diviso tra Milano (sede dei grandi gruppi editoriali) e Roma (sede di blasonati salotti letterari). […] Irregolare, ramingo, solitario, geniale. In vita viaggiò in lungo e in largo: prima in Italia, poi per il mondo, tanto da finire ad essere molto più conosciuto — e apprezzato — negli Stati Uniti che non in Italia (Stati Uniti dove è stato per molti anni uno stimato professore universitario di italiano e di letteratura comparata in diversi e prestigiosi atenei). […] fugge a diciotto anni [da Casacalenda], unendosi a una colonna di camion della Wermacht in ritirata dopo lo sbarco degli Alleati a Salerno. […] si unisce ai tedeschi non per ideologia, né per inseguire il mito della guerra. Semplicemente vuole fuggire via. Fuggire dalla prospettiva di un matrimonio riparatore, fuggire dalla noia di un luogo senza stimoli, fuggire dai propri anni, ed è così che si ritrova a Venezia. Qui, viene catturato dalle SS e finisce ai lavori forzati a Villafranca. Fuggito, arriva a Milano, dove viene preso dalle Brigate Nere e — per sfuggire alla fucilazione dopo essere stato condannato come disertore — si arruola nella neonata Repubblica sociale». («Il Giornale», 5 dicembre 2021).
L’Editrice calabrese ripropone ora, con un ricco apparato paratestuale, il romanzo d’esordio, scritto all’età di 19 anni e caratterizzato da una storia editoriale a dir poco accidentata.
Nei primi mesi del 1950 Rimanelli lo presenta a Cesare Pavese, redattore di Einaudi, come «la storia d’un giovane della sua età che vede la Resistenza dalla parte sbagliata». Malgrado qualche perplessità, lo scrittore piemontese apprezza nel complesso l’opera e scrive immediatamente al suo collega Carlo Muscetta della redazione romana: «Con tanta materia sanguinolenta, orrida e oscena, pecca per sentimentalismo. Del resto essere sentimentali vuol dire esser deboli (letterariamente): cedere alle sensazioni e agli umori, e quindi al gusto per il truce, il violento, il colorito, il sensuale. Aggiungi che sul fiammeggiare aggettivale e verbale della sua prosa descrittiva, Giose ha sparso il pepe del turpiloquio neorealista. Insomma, potare, sfrondare, neutralizzare, verniciare». A maggio Pavese e Calvino indicano alla redazione i limiti dell’opera («sia letterari che come documento politicamente educativo»), sottolineandone però lo straordinario vigore descrittivo. Il romanzo viene impaginato per la collana «I coralli». Le prime bozze escono dai torchi e qualche giorno dopo, il 27 agosto 1950, Pavese si uccide. Come Calvino, anche l’altra colonna della Casa torinese, Natalia Ginzburg, giudica il libro troppo acerbo, oltreché portatore d’una visione eslege della Resistenza, tema in quegli anni a dir poco rovente. Non se ne fa più nulla. Tre anni dopo Elio Vittorini propone il romanzo alla Mondadori, che lo dà fuori non senza successo nella «Medusa degli Italiani».
Così la vedova dell’Autore condensa la trama dell’opera nel suo testo introduttivo: «Marco Laudato, protagonista e narratore, è un adolescente di diciassette anni che vuole, disperatamente, crescere e non essere più considerato un ragazzo. Per diversi anni Marco era stato seminarista. Decide, con molto dispiacere della madre, d’abbandonare la vita religiosa e tornare a casa. Una volta rientrato a Casacalenda, non trova nessun tipo di lavoro, cosa che irrita molto il padre. Una notte, dopo le divergenze con i suoi genitori e la sua ragazza, scappa dal suo villaggio ed è costretto ad arruolarsi nelle Milizie fasciste, la RSI. Fin dall’inizio Marco è un partecipante riluttante. Riesce più volte a fuggire dalle forze di destra, tentando di fuggire persino quando è minacciato di morte. Alla fine della guerra è prigioniero degli americani su un treno diretto al Sud per essere deportato in Africa in un campo di prigionia. Marco scappa dal treno e riesce a tornare a casa. Il suo rientro è agrodolce: è sopravvissuto alla guerra, mentre alcuni amici del paese sono stati fucilati. La sua ricomparsa a Casacalenda è amara perché percepisce che la gente non ha cambiato la visione della vita. Molte persone aderiscono ancora all’ideologia fascista e molti sperano nella comparsa di un nuovo Duce. Una volta constatata la situazione, il silenzio di Marco si trasforma in rabbia. Condanna la possibilità di un ritorno della malvagia dottrina sociopolitica basandosi sulla sua orrenda esperienza bellica. Lui, entrato in guerra ragazzo, ne è uscito uomo» (p. 9).
«Rimanelli scrive — avverte Anna Maria Milone nella Postfazione — per un’urgenza comunicativa e per un’appartenenza alla cultura italiana, senza mai sentirsi ghettizzato, senza doversi legare ai confini geografici, sublimando una condizione di esule libero e fedele alla cultura e alla lingua come momenti irriducibili dell’uomo. […] il ritorno ossessivo del suo primo personaggio Marco Laudato in Tiro al piccione, fino ai romanzi più sperimentali, è il riproporsi nella mente dello scrittore del medesimo scenario, la guerra, e il bisogno di raccontarlo ancora, di trovare una nuova lingua con cui raccontarlo» (p. 258).
Ed è proprio la lingua, piuttosto che il plot (l’influsso dell’americano Fenoglio, a dirne una, è troppo lampante e pervasivo per riconoscere allo scrittore originalità e temerarietà sperimentale da outsider), ad attirare l’attenzione dell’odierno lettore: una lingua sobria, asciutta, che poco o nulla concede al compiacimento letterario (ancorché si presenti non di rado venata d’un tenue lirismo), come provano i seguenti lacerti, in cui domina una ipotassi franta, scarna, nervosa, interpuntivamente essenziale, mirante al nucleo — sovente atroce — delle cose:
A una svolta picchiai la testa contro una cassa. Sentivo freddo. Per terra, sotto i piedi, pestai forte sul mozzicone del sigaro. Mi sfregai gli occhi e cercai di veder qualcosa nel polverone. Adesso si attraversava un paese, sentii l’acqua d’una fontana nella vasca. Annusavo la polvere, ma gli occhi li tenevo sempre fissi alla barella. Pensavo cosa ci poteva essere sotto. Quegli stivali erano la continuazione di quattro gambe, pensavo. Di questo ne ero sicuro. Poi mi passò un brivido nella schiena e dissi «no» a me stesso. Dissi no più volte, per negare a me stesso un pensiero certo, che mi spaventava. Tuttavia mi alzai da sedere, come se fossi stato spinto da una molla automatica. Cautamente strisciai fra le casse e i bidoni fino alla barella. Mi inginocchiai, piano feci scorrere la mano sul telo, senza calcare troppo, poi la feci scivolare sotto. La mano si irrigidì su di un volto freddo, dalla barba ispida. Scostai il telo di colpo e il sudore, dalla mia fronte, piovve giù. I due soldati morti erano legati l’uno all’altro con uno spago di luce elettrica. Quello di sinistra aveva un occhio aperto, bianco, appannato come i vetri delle finestre in autunno. (pp. 38-39);
Tutte le notti mi tormentava il prurito. Mi grattavo nel sonno. Sta a vedere che ho preso la scabbia, mi dicevo. Ma il sesto giorno mi accorsi di avere i pidocchi. I pidocchi della prigione sono grassi, hanno una crocetta rossa sul dorso, e camminano familiarmente sulla tua persona. Tutti gli altri avevano i pidocchi, ma c’erano abituati. Poi m’abituai anch’io e non ci pensai più. (p. 74).
Di grande interesse i brani dialogici innestati in altro carattere nel corpo della narrazione; voci del presente:
Riuscii a trovare un posto vicino al finestrino; deposi la valigia sotto il sedile davanti e vi posai su i piedi. Poi la signora grassa della latrina, sempre con la sua borsa di vernice nera sul ventre, mi chiese il posto per piacere sa scusi tanto vicino al finestrino (p. 44)
e della memoria:
Nel buio sentivo il gocciolare dell’acqua nel lavandino. Ombre nere si staccavano dal muro e mi venivano in faccia, poi si allontanavano. sono tanto infelice Marco, ma tu vuoi andartene ascolta Marco Marco… Ficcai la testa sotto il cuscino. (p. 71).