Con la sua prosa ha collegato più universi e più lettori, “setacciando” con rigore e profondità l’anima e i pensieri dei migliori autori. Così il grande scrittore, fonte indiscussa di svariati scenari della letteratura, viene raccontato da Chiara Fera sotto una nuova luce
Pubblichiamo un ricordo della figura di Pietro Citati a firma di Chiara Fera, che sul grande letterato ha pubblicato per Rubbettino nel 2018 “Il libro invisibile di Pietro Citati“
Avevo ventiquattro anni quando bussai alla sua porta. La mia voce tremava, al punto che lì per lì riuscii goffamente a dire ben poco. Stavo incontrando Pietro Citati. Bussavo alla porta di un uomo che di letteratura – quell’ambigua, sterminata, galvanizzante materia a cui avevo deciso di dedicarmi – tutto aveva letto e tutto aveva scritto.
Divorato, commentato, vissuto in prima persona fino a trasfigurarsi ora in personaggio letterario, ora in amico fidato degli autori di cui di volta in volta setacciava anima e pensieri. In buona sostanza, di fronte a me si ergeva la storia della letteratura in persona. Era ogni personaggio, ogni dialogo, ogni emozione con cui i grandi capolavori amano conturbare i nostri sensi.
E io, cosa offrivo in dono dietro quella porta? Qualche libro letto, un irrequieto fastidio di averne letti troppo pochi, il desiderio di provare a dominare l’universo letterario intervistandone il negus indiscutibile. Ma anche la sorpresa ancora viva suscitata da quelle poche parole al telefono con cui, lui schivo e discreto, lui allergico al clamore e alla mondanità, accettò la mia richiesta di incontro.
Infine, ancora orfana delle funzioni vitali, portavo con me l’incapacità di capire da dove iniziare. Fu lui a distendere la mia agitazione, sciorinando storie a volte sue a volte tirate fuori da una mente tappezzata di parole altrui. Allora partii con le domande, tante, tantissime, nate dalla curiosità e dall’ammirazione piena per un uomo che aveva vissuto innumerevoli vite: fu al capezzale di Ivan Il’ic, tenne per mano Oliver Twist, rimase incantato al martellante ed esasperato “Nevermore” di Poe, abitò l’infinito in compagnia di Pessoa.
Discorrendo, gli feci notare la cifra stilistica inconfondibile che trapela dai suoi articoli e dai suoi saggi, il fascino del suo lavoro che non consiste nella mera e asettica rielaborazione biografica né nell’intricata e rigida elucubrazione accademica, ma nel febbrile, empatico e seducente slancio nell’individualità più intima di uno scrittore per poter narrare origine e ragioni di un romanzo che da quell’individualità è nato. Una ricerca instancabile, quasi estenuante, nella psiche, negli impulsi, nelle sensazioni e persino nei gesti e nei movimenti e ancora nei pensieri e nelle sfumature più sottili di autori e testi per rischiarare i significati più reconditi dei loro capolavori.
Pietro Citati si è inabissato – e, bisogna dirlo, mai nessuno ne è stato capace – nello scheletro di genialità letterarie, per poi riemergere con incastri narrativi prima di lui inimmaginabili: autori e personaggi, romanzi e testi poetici sono stati spogliati, sviscerati e ricostruiti (o meglio, riscritti) con un ineguagliabile impulso narrativo che invade con prepotenza lo scopo critico dei suoi articoli, in cui autore e opera divengono protagonista e trama di un inedito e appassionante romanzo critico. E quell’impulso narrativo con cui è riuscito a illuminare finanche i lettori inesperti sul viaggio dell’uomo nel mondo ha fatto di lui uno scrittore a tutti gli effetti.
Mi rispose, con austera discrezione: «Quello che io faccio è il racconto di un’analisi. Credo che la critica si faccia sempre così: non a caso, i critici che amo maggiormente sono Proust e Flaubert, ovvero scrittori che parlano di scrittori». Ecco: il racconto di un’analisi. Non potevo non scegliere questa più che calzante espressione come sottotitolo del libro che decisi di dedicargli. Il titolo? “Il libro invisibile di Pietro Citati”. Perché questo gioco di immedesimazione, di empatico sentire, a mio dire è giunto a maggiore compimento con il più illuminante scrittore di tutti i tempi: Fëdor Dostoevskij. A cui però, a differenza di quanto avvenne con Kafka, Leopardi, Manzoni, Tolstoj, Proust, Cervantes, non dedicò mai una delle sue intense e sublimi monografie. «Non ci ho mai pensato, è troppo difficile» mi confidò con aria dimessa, lasciandomi attonita e sbigottita.
Eppure, leggendo e rileggendo i densi articoli di giornale che ha dedicato negli anni allo scrittore russo, gli feci notare che quella monografia, inavvertitamente e sorprendentemente, l’aveva scritta. Sulle pagine culturali dei quotidiani, per lettori comuni. Vincendo la faticosa sfida contro il reazionario elitarismo della letteratura. Quando gli portai su carta queste mie riflessioni, evidenziando la sua mirabile capacità di individuare ed esprimere la fusione tra la lacerante sensibilità che assale lo spirito dostoevskiano, acuendo la percezione del male che genera irrimediabilmente depressione e nevrosi, e la melanconia inquieta che invade la sua scrittura fino a diventarne tessuto di carne e sangue, ne rimase visibilmente affascinato e insieme stupito.
Glielo spiegai molto chiaramente, senza fronzoli: mai nessuno aveva dato del tu a Dostoevskij, mai nessuno era giunto così vicino ai suoi sconvolgenti ma necessari turbamenti umani, mai nessuno aveva compreso così a fondo la mente tragica e impressionante dell’autore di “Delitto e castigo”, a suo dire «nostro unico nume tutelare». Pietro Citati ci ha consegnato un Dostoevskij ignoto e inesplorato: un nuovo personaggio letterario nato dall’incontro tra l’autore e i suoi personaggi. Infelice ed epilettico come Raskolnikov, disperato e ossessionato dagli abissi dell’intelligenza umana come l’uomo del sottosuolo, algido e diabolico come Stavrogin. Ne avevamo bisogno. Leggete Citati, Leggete Dostoevskij e scoprirete perché.
Una piccola anticipazione: nelle loro pagine troverete tutti i sentimenti umani possibili, anche quelli più impenetrabili, anche le pieghe più mute. Spero che in quel momento, di fronte alle mie parole, alle mie ricerche, alla mia, non lo nego, glorificazione letteraria, Citati abbia preso atto della sua grandezza. Una grandezza che nasce da un fatto molto semplice: contro la spesso artefatta costruzione di storie frigide e leziose di cui ormai è piena zeppa la produzione giornalistica ed editoriale, lui ha saputo sviscerare con immediatezza, facendoci riflettere sulle nostre verità, la materia di cui è fatto l’uomo e che riecheggia per mezzo dei grandi scrittori: passione, sofferenza, destino, morte, felicità, rimorso e pentimento. Il suo più grande merito è stato quello di aver saputo dimostrare, o meglio ricordare, che la letteratura è quanto di più vicino all’uomo possa esistere. La letteratura è imprescindibilmente umana. Non può e non deve essere impolverata con tecnicismi accademici, non può essere rinchiusa nelle aule universitarie, non può essere ridotta a pruriginoso sentimentalismo sulle terze pagine dei quotidiani.
Pietro Citati, con la sua concretezza, la sua lucidità, il suo vivere in bilico tra gli smisurati regni delle infinite possibilità, senza timore di venir travolto da qualcosa più grande di lui – timore che molti addetti ai lavori insinuano nei lettori, contribuendo alla deriva culturale in atto – ha compiuto il più straordinario del miracoli: riportare la letteratura lì dove è nata, tra la gente. Avvicinando donne e uomini alla bellezza delle parole che raccontano la loro stessa vita.
Se ha segnato la mia vita? Oh, sì, tantissimo. Una scelta, in particolare, la maturai dopo i nostri incontri. Lasciare la metropoli in cui vivevo da anni e vivere in disparte, in campagna, circondata da libri e con un tavolo su cui scrivere. Non m’importa d’altro, non ho bisogno d’altro. Ho una libreria sconfinata, il mondo nelle mani. Su una cosa, invece, eravamo antitetici: l’insegnamento. Iniziò esattamente alla stessa età in cui iniziai io. Ma dopo pochi anni lasciò, per dedicarsi esclusivamente alla letteratura. Io senza i miei alunni non potrei immaginare la mia vita. Alcuni, poi, me l’hanno resa migliore. E ogni qualvolta parliamo di Shakespeare, Cervantes, Dostoevskij, Leopardi la mia mente non può che andare alle sue pagine entusiasmanti e vive che inceneriscono titanicamente il tedio sterile dei manuali scolastici. Ai miei alunni continuerò a parlare di lui, che ha reso la letteratura un fatto divertente e irrinunciabile.
Per la sua intransigenza attirò diverse critiche. Ma faceva bene. Nella vita bisogna essere intransigenti. L’alternativa perseguita il nostro tempo: mollezza di spirito, superficialità d’animo, inconcludenza spaventosa. In uno dei nostri incontri mi disse: «Non badi alle chiacchiere che si fanno in giro, lasci perdere le mode del momento, i consigli improvvisati. Legga. Non deve fare altro che leggere, non solo per imparare a scrivere, ma per imparare a vivere». Era austero, inscalfibile, aveva dalla sua la meraviglia della conoscenza sconfinata. Era il mare che arrestava la vanagloria del turbinio mediatico, gli elogi vacui e interessati dei pensatori del momento, il frivolo chiacchiericcio in diretta tv di fatiscenti scrittori.
Ricordo le risate che mi feci quando lessi un suo articolo del 1985 in cui commentava la classifica dei libri più venduti in Italia sostenendo che chi legge i «cattivi libri di oggi» vi troverà soltanto «una purea di viscidi sentimenti, falso sublime, pensieri confusi. Perciò è bene scoraggiare gli italiani dalla lettura. Che disertino le librerie e le biblioteche, che disdicano gli abbonamenti ai Club degli editori, che facciano fallire tutte le case editrici, piuttosto che continuare a leggere i libri in testa alle classifiche della “Stampa”». Eccezionale. Inarrivabile. Necessario. Come faremo senza la prosa fulminante di Pietro Citati?
Non aveva pari e non ne avrà mai. Nessuno osi paragonarsi alla sua prosa fulgida, alla sua astuta intuizione di carpire il tutto con poco. Alla sua freschezza di parola, che con leggerezza racconta i più intricati desideri umani. In uno dei suoi articoli scrisse «Sono lieto di continuare a leggere. La lettura e i libri sono l’unica cosa illimitata del mondo – molto più degli alberi, e di quella parte del Mar Tirreno, che lambisce dolcemente la mia casa. Leggerò, leggerò – chissà cosa, persino il Dizionario teologico del Kittel, e decine di edizioni dell’Antico Testamento e dei Vangeli, e tutto Voltaire, e tutto Sainte-Beuve, e tutto Henry James, e tutto Hawthorne, e tutto Melville, e le chiose spesso indecifrabili di Alessandro Manzoni, e lo Zibaldone. Bisogna che non muoia troppo presto».
Spero abbia avuto il tempo di leggerli tutti. In questo triste giorno, mi avvicino dolcemente al suo ricordo, provando quella stesso bruciore: ho un tormento, non poter leggere tutti i libri del mondo. Che riposi in pace, in uno dei tanti mondi che amava esplorare sulla sua poltrona giallo tenue, con un occhio rivolto alle parole e un altro alla mente fantasiosa. E a voi lettori, giornalisti, editorialisti di chiara fama, un’esortazione: non chiamatelo critico letterario. Pietro Citati è uno scrittore. Il più grande dei nostri tempi.
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