Il saggio di Fraquelli fa luce sulla complessa vicenda dell’irregolare che si appoggiò a Hitler contro Stalin
Come può un eroe essere allo stesso tempo un criminale? I due concetti sembrano escludersi. Eppure L’eroe criminale (Rubbettino, pagg. 188, euro 16) è il titolo della prima biografia italiana dedicata a Stepan Bandera, protagonista del nazionalismo ucraino del Ventesimo secolo, tornato in primo piano dopo il 24 febbraio dell’anno scorso. Per gli uni (gli ucraini) figura di riferimento del Pantheon patriottico, per gli altri (i russi) feticcio grazie al quale si giustificano invasione e lotta senza quartiere al Paese confinante, caduto nelle grinfie, secondo la narrativa del Cremlino, dei banderovtsy, i banderiti, seguaci di un leader paragonabile a Hitler per idee e crimini perversi.
Al netto della propaganda di Mosca (poco o nulla di quanto accaduto da quelle parti negli ultimi anni è davvero legato a Bandera e ai più o meno fantomatici banderiti) resta l’ossimoro iniziale con cui Marco Fraquelli, studioso delle destra europea, ha voluto sintetizzare il percorso di un personaggio che ha pochi uguali per la capacità di suscitare giudizi controversi e contraddittori.
Le complessità della sua vicenda personale sono già tutte presenti sin dalla nascita, avvenuta nel 1909 nella Galizia Occidentale. L’Ucraina in quel periodo non è nemmeno un’espressione geografica, divisa tra Impero Austro-Ungarico e Impero zarista. Ma in Galizia e Volinia, lande estreme della monarchia Imperialregia, a dominare la scena pubblica è la comunità polacca, particolarmente numerosa nei centri urbani, a cui le autorità viennesi si appoggiano. Le contraddizioni esplodono con la Prima guerra mondiale: la regione diventa terreno di battaglia degli eserciti degli Imperi centrali e di quello zarista. Poi, dopo il 1918, finito il conflitto globale, a combattere sono i russi legittimisti dell’Armata Bianca e i bolscevichi dell’Armata Rossa, le truppe del movimento nazionale ucraino e l’esercito polacco del Maresciallo Pilsudsky. Un carosello che semina morte e orrori, al termine del quale i nazionalisti ucraini per sfuggire ai russi si gettano nelle braccia dei polacchi. Come in certi giochi di società si ritrovano quasi subito alla casella di partenza: senza uno Stato proprio e con due padroni, da una parte i comunisti russi, e dall’altra, al posto degli austriaci, i polacchi.
Il giovane Stepan Bandera, figlio di un sacerdote uniate (cioè della Chiesa Cattolica di rito orientale) si fa le ossa e arriva alla fama lottando proprio contro le autorità di Varsavia. La sua consacrazione è il processo per l’omicidio dimostrativo del Ministro degli Interni Bronislaw Pieracki nel 1934: Bandera è stato arrestato il giorno prima dell’attentato, ma in Tribunale, nel corso delle udienze, rivendica con orgoglio il suo ruolo di organizzatore. Insieme alla fama si guadagna una condanna a morte, poi commutata in ergastolo, e in carcere consolida la propria leadership.
È un uomo del suo tempo, le cui esperienze culturali e politiche sono profondamente influenzate dai movimenti autoritari che, in opposizione al bolscevismo, dominano la scena europea. «Fascismo, nazionalsocialismo, nazionalismo ucraino, sono tutte espressioni di uno stesso spirito», scrive la rivista del movimento in cui si riconosce. Bandera è razzista e antisemita, proclama l’esigenza di una «rivoluzione nazionale», dichiara che violenza e morte devono portare a un’Ucraina indipendente e libera, purificata da ogni influenza straniera, ebraica e bolscevica. Anzi, per lui, così come per i nazisti, il bolscevismo altro non è che una faccia, laica e moderna, dell’ebraismo eterno.
Quando nel 1939, Hitler e Stalin invadono la Polonia il leader nazionalista approfitta dell’implosione dello Stato polacco per riacquistare la libertà e giocare le sue carte per creare, finalmente, uno Stato ucraino. Inizia un pellegrinaggio in mezza Europa per cercare gli appoggi necessari: va in Germania, viene anche in Italia, a Roma, organizza congressi e manifestazioni pubbliche.
Ma sull’Ucraina e i popoli slavi, Hitler e i nazisti hanno le loro idee, che non coincidono affatto con quelle degli ucraini. Dopo qualche tentennamento la decisione è chiara: l’Europa centrale non è altro che una parte del cosiddetto Lebensraum, lo spazio vitale destinato alla razza ariana. Bandera e i suoi possono servire nella lotta contro Stalin, e per questo non vanno tolti di mezzo, ma devono essere tenuti d’occhio. Il leader nazionalista finisce in Germania al domicilio coatto e, poi, sia pure in condizioni privilegiate, nel Lager di Sachsenhausen.
Nel frattempo, in Patria, gli uomini di Bandera danno con entusiasmo una mano agli occupanti nazisti: formano reparti di SS, costituiscono una milizia incaricata di mantenere l’ordine, soprattutto partecipano a pogrom e rastrellamenti della popolazione ebraica. Sulla coscienza del movimento nazionalista finiscono migliaia di morti, tra ebrei e polacchi. Sono gli anni e le imprese che contribuiranno alla leggenda «nera» del leader ucraino. Lui, prigioniero in Germania, non ha la responsabilità materiale e diretta degli avvenimenti. Quanto alla responsabilità morale e politica, Fraquelli, sulla scia di un altro biografo di Bandera, Grzegorz Rossolinski-Liebe (Stepan Bandera: the life and after life of a Ukranian nationalist) non ha dubbi: Bandera «non condannò mai le violenze, nè prese le distanze da esse; spesso, anzi, si congratulò con gli «amici-eroi» per quanto fatto per la causa rivoluzionaria».
Alla condanna piena fa da contraltare il destino personale suo e della sua famiglia, che simboleggia quello di un popolo a lungo sballottato dalla storia. Negli anni della guerra il padre e due sorelle vengono arrestati dalla Nkvd, la polizia segreta di Stalin: il genitore viene fucilato, le donne deportate in Siberia. Due fratelli, invece, finiscono come lui in un campo di concentramento tedesco, ne l’uno nè l’altro sopravviveranno.
Mentre la fine delle ostilità si avvicina l’accordo di Yalta non lascia spazio a equivoci: l’Ucraina è assegnata all’area della potenza sovietica. Bandera entra nell’orbita dei servizi di sicurezza di Usa e Gran Bretagna che progettano di utilizzarlo per azioni di disturbo nelle zone a sovranità russa: scampoli del suo movimento rimarranno attivi oltre-cortina fino a metà degli anni Cinquanta. La sua vita personale si fa difficile: continua a risiedere in Germania e cambia continuamente città per sfuggire alla condanna a morte emessa dalle autorità comuniste. Non gli basta: nell’ottobre del 1959 viene trovato svenuto e con la gola sanguinante lungo le scale di casa. Non riprenderà più conoscenza. Gli uomini a lui vicini sono sicuri, è stato assassinato. Ma per mesi sulla sua morte si susseguono le voci più disparate; molte sono diffuse dalla propaganda russa. Solo due anni dopo, nel 1961, un uomo con un marcato accento della Germania dell’Est si presenta a un posto di polizia di Berlino e chiede di parlare con gli agenti dei servizi segreti Usa. Confessa di essere una spia sovietica, di aver ucciso Bandera e di voler passare agli americani.
La memoria di Bandera è già affidata alla diaspora ucraina dispersa in Europa e nel resto del mondo. Solo negli anni della fine del comunismo il leader nazionalista ritorna a essere una presenza pubblica nel suo Paese. Il 15 ottobre del 1989, nel trentesimo anniversario del suo omicidio, un gruppo di giovani depone una croce di bronzo davanti alla sua casa natale. In diverse città gli vengono intitolate strade e piazze: per molti è il simbolo di un nazionalismo a lungo compresso e negato. Dal punto di vista politico i movimenti di destra che a lui direttamente si richiamano rimangono una piccola minoranza. Alla Russia di Vladimir Putin non interessa: per il leader del Cremlino non esiste alcuna Patria degli ucraini.
Come può un eroe essere allo stesso tempo un criminale? I due concetti sembrano escludersi. Eppure L’eroe criminale (Rubbettino, pagg. 188, euro 16) è il titolo della prima biografia italiana dedicata a Stepan Bandera, protagonista del nazionalismo ucraino del Ventesimo secolo, tornato in primo piano dopo il 24 febbraio dell’anno scorso. Per gli uni (gli ucraini) figura di riferimento del Pantheon patriottico, per gli altri (i russi) feticcio grazie al quale si giustificano invasione e lotta senza quartiere al Paese confinante, caduto nelle grinfie, secondo la narrativa del Cremlino, dei banderovtsy, i banderiti, seguaci di un leader paragonabile a Hitler per idee e crimini perversi.
Al netto della propaganda di Mosca (poco o nulla di quanto accaduto da quelle parti negli ultimi anni è davvero legato a Bandera e ai più o meno fantomatici banderiti) resta l’ossimoro iniziale con cui Marco Fraquelli, studioso delle destra europea, ha voluto sintetizzare il percorso di un personaggio che ha pochi uguali per la capacità di suscitare giudizi controversi e contraddittori.
Le complessità della sua vicenda personale sono già tutte presenti sin dalla nascita, avvenuta nel 1909 nella Galizia Occidentale. L’Ucraina in quel periodo non è nemmeno un’espressione geografica, divisa tra Impero Austro-Ungarico e Impero zarista. Ma in Galizia e Volinia, lande estreme della monarchia Imperialregia, a dominare la scena pubblica è la comunità polacca, particolarmente numerosa nei centri urbani, a cui le autorità viennesi si appoggiano. Le contraddizioni esplodono con la Prima guerra mondiale: la regione diventa terreno di battaglia degli eserciti degli Imperi centrali e di quello zarista. Poi, dopo il 1918, finito il conflitto globale, a combattere sono i russi legittimisti dell’Armata Bianca e i bolscevichi dell’Armata Rossa, le truppe del movimento nazionale ucraino e l’esercito polacco del Maresciallo Pilsudsky. Un carosello che semina morte e orrori, al termine del quale i nazionalisti ucraini per sfuggire ai russi si gettano nelle braccia dei polacchi. Come in certi giochi di società si ritrovano quasi subito alla casella di partenza: senza uno Stato proprio e con due padroni, da una parte i comunisti russi, e dall’altra, al posto degli austriaci, i polacchi.
Il giovane Stepan Bandera, figlio di un sacerdote uniate (cioè della Chiesa Cattolica di rito orientale) si fa le ossa e arriva alla fama lottando proprio contro le autorità di Varsavia. La sua consacrazione è il processo per l’omicidio dimostrativo del Ministro degli Interni Bronislaw Pieracki nel 1934: Bandera è stato arrestato il giorno prima dell’attentato, ma in Tribunale, nel corso delle udienze, rivendica con orgoglio il suo ruolo di organizzatore. Insieme alla fama si guadagna una condanna a morte, poi commutata in ergastolo, e in carcere consolida la propria leadership.
È un uomo del suo tempo, le cui esperienze culturali e politiche sono profondamente influenzate dai movimenti autoritari che, in opposizione al bolscevismo, dominano la scena europea. «Fascismo, nazionalsocialismo, nazionalismo ucraino, sono tutte espressioni di uno stesso spirito», scrive la rivista del movimento in cui si riconosce. Bandera è razzista e antisemita, proclama l’esigenza di una «rivoluzione nazionale», dichiara che violenza e morte devono portare a un’Ucraina indipendente e libera, purificata da ogni influenza straniera, ebraica e bolscevica. Anzi, per lui, così come per i nazisti, il bolscevismo altro non è che una faccia, laica e moderna, dell’ebraismo eterno.
Quando nel 1939, Hitler e Stalin invadono la Polonia il leader nazionalista approfitta dell’implosione dello Stato polacco per riacquistare la libertà e giocare le sue carte per creare, finalmente, uno Stato ucraino. Inizia un pellegrinaggio in mezza Europa per cercare gli appoggi necessari: va in Germania, viene anche in Italia, a Roma, organizza congressi e manifestazioni pubbliche.
Ma sull’Ucraina e i popoli slavi, Hitler e i nazisti hanno le loro idee, che non coincidono affatto con quelle degli ucraini. Dopo qualche tentennamento la decisione è chiara: l’Europa centrale non è altro che una parte del cosiddetto Lebensraum, lo spazio vitale destinato alla razza ariana. Bandera e i suoi possono servire nella lotta contro Stalin, e per questo non vanno tolti di mezzo, ma devono essere tenuti d’occhio. Il leader nazionalista finisce in Germania al domicilio coatto e, poi, sia pure in condizioni privilegiate, nel Lager di Sachsenhausen.
Nel frattempo, in Patria, gli uomini di Bandera danno con entusiasmo una mano agli occupanti nazisti: formano reparti di SS, costituiscono una milizia incaricata di mantenere l’ordine, soprattutto partecipano a pogrom e rastrellamenti della popolazione ebraica. Sulla coscienza del movimento nazionalista finiscono migliaia di morti, tra ebrei e polacchi. Sono gli anni e le imprese che contribuiranno alla leggenda «nera» del leader ucraino. Lui, prigioniero in Germania, non ha la responsabilità materiale e diretta degli avvenimenti. Quanto alla responsabilità morale e politica, Fraquelli, sulla scia di un altro biografo di Bandera, Grzegorz Rossolinski-Liebe (Stepan Bandera: the life and after life of a Ukranian nationalist) non ha dubbi: Bandera «non condannò mai le violenze, nè prese le distanze da esse; spesso, anzi, si congratulò con gli «amici-eroi» per quanto fatto per la causa rivoluzionaria».
Mentre la fine delle ostilità si avvicina l’accordo di Yalta non lascia spazio a equivoci: l’Ucraina è assegnata all’area della potenza sovietica. Bandera entra nell’orbita dei servizi di sicurezza di Usa e Gran Bretagna che progettano di utilizzarlo per azioni di disturbo nelle zone a sovranità russa: scampoli del suo movimento rimarranno attivi oltre-cortina fino a metà degli anni Cinquanta. La sua vita personale si fa difficile: continua a risiedere in Germania e cambia continuamente città per sfuggire alla condanna a morte emessa dalle autorità comuniste. Non gli basta: nell’ottobre del 1959 viene trovato svenuto e con la gola sanguinante lungo le scale di casa. Non riprenderà più conoscenza. Gli uomini a lui vicini sono sicuri, è stato assassinato. Ma per mesi sulla sua morte si susseguono le voci più disparate; molte sono diffuse dalla propaganda russa. Solo due anni dopo, nel 1961, un uomo con un marcato accento della Germania dell’Est si presenta a un posto di polizia di Berlino e chiede di parlare con gli agenti dei servizi segreti Usa. Confessa di essere una spia sovietica, di aver ucciso Bandera e di voler passare agli americani.
La memoria di Bandera è già affidata alla diaspora ucraina dispersa in Europa e nel resto del mondo. Solo negli anni della fine del comunismo il leader nazionalista ritorna a essere una presenza pubblica nel suo Paese. Il 15 ottobre del 1989, nel trentesimo anniversario del suo omicidio, un gruppo di giovani depone una croce di bronzo davanti alla sua casa natale. In diverse città gli vengono intitolate strade e piazze: per molti è il simbolo di un nazionalismo a lungo compresso e negato. Dal punto di vista politico i movimenti di destra che a lui direttamente si richiamano rimangono una piccola minoranza. Alla Russia di Vladimir Putin non interessa: per il leader del Cremlino non esiste alcuna Patria degli ucraini.