Da Il Foglio del 18 marzo
Può un uomo che non ha mai partecipato a una congiura diventarne il massimo studioso, tanto da costruirne addirittura una fenomenologia? Sì, se quell’uomo è Niccolò Machiavelli. Il materiale dedicato al tema, nella vasta produzione dell’uomo di stato fiorentino, non manca: dal sesto capitolo del terzo libro dei Discorsi ad altri scritti che Alessandro Campi seleziona in modo ragionato. Il quadro che ne emerge è una lettura storica e politica, che va ben più in profondità rispetto alla tradizionale analisi della congiura sviluppata solo dal punto di vista psicologico del congiurato. La particolarità sta nel fatto che Machiavelli, come aveva notato già Leo Strauss, avversava la congiura come strumento di lotta politica. Già per sua natura tutt’altro che sedizioso, riteneva la congiura pericolosa e inefficace, tant’è che ciò avrebbe dovuto spingerlo “a liquidare il fenomeno alla stregua di una patologia estranea al suo modo di concepire la dinamica della politica e del potere, a trascurarlo o a metterlo in secondo piano”. Dopotutto, Machiavelli nel Principe scrive che “le difficoltà che sono da la parte de’ congiuranti sono infinite, e per esperienza si vede molte essere state le congiure e poche avere avuto buono fine”. E ancora, nei Discorsi, osserva che a causa di complotti e cospirazioni si sono visti “molti più principi avere perduta la vita e lo stato che per guerra aperta”. Lui preferiva di gran lunga altri strumenti più sottili, come la dissimulazione e il sotterfugio, la doppiezza, l’inganno e l’abile uso della ars oratoria tramandata dai padri latini. Perfino la maieutica di derivazione socratica, utile a carpire i segreti nascosti nell’animo dell’interlocutore per piegarlo alla propria volontà e ai propri interessi. Eppure, rileva l’autore, proprio l’essere immerso in un clima di quasi perenne cospirazione e sospetto, con la violenza usata come mezzo per raggiungere il meglio in politica, ha favorito la riflessione di Machiavelli, che sulla congiura ha fornito una trattazione analitica, una casistica storica “e persino una tipologia di massima”. Certo, lo storico fiorentino – da uomo vissuto a cavallo tra il Quattro e Cinquecento – era il primo a sapere che la violenza in certi casi era necessaria, una “necessità imposta dalle contingenze e alla quale non si può sfuggire in certe circostanze”, ma la violenza brutale non accompagnata da una visione, da un fine che vada al di là del pugnale sfoderato dalla cintola, rimane fine a se stessa. Col progredire della modernità, però, la lettura della congiura ha subìto un’evoluzione, un cambiamento che Machiavelli non avrebbe potuto prevedere. Scrive Campi che alla congiura “si è aggiunta una nuova dimensione della lotta politica, basata sulle paure inconsce e sulle elucubrazioni che il potere alimenta in coloro che lo subiscono e ne sono lontani”. E’ la “paranoia complottista”, tratto caratterizzante della cultura contemporanea: se le congiure investono meramente la sfera della lotta politica, nei complotti a essere determinante è la volontà di soggetti astratti, di entità sfuggenti. Ecco perché, se da una congiura con nemici reali, conosciuti e ben visibili ci si può difendere, più arduo è il compito se di mezzo c’è un complotto, con un nemico assoluto, senza nome e senza volto. Questa è la grande differenza: Machiavelli, osserva l’autore, “attraverso i racconti di congiure ci ha parlato di uomini, con le loro passioni e i loro ambiziosi disegni, che agiscono nella dimensione della storia e della politica. La nostra pretesa di spiegare tutta la realtà ricorrendo a trame occulte che avrebbero come fine addirittura il controllo dell’intera umanità, semplicemente lo avrebbe fatto sorridere, o forse nemmeno l’avrebbe capita”.
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