Florindo Rubbettino basandosi sul suo intervento alla recente inaugurazione del Fondo Librario “Luciano Barca” ad Ancona, ricostruisce la vicenda editoriale delle Cronache dall’interno del vertice del PCI di Luciano Barca, edite da Rubbettino nel 2005 e sottolinea l’importanza sia del lavoro culturale che sta dietro la scrittura e la diffusione editoriale della memorialistica storica (ricordare, conservare, trasmettere) sia della memoria storica condivisa e della necessità di un confronto aperto e generoso sulle eredità delle culture e tradizioni politiche, sui loro successi e limiti.
Era stato su suggerimento di due giovani economisti dell’Università della Calabria (Domenico Cersosimo e il compianto Giovanni Anania) e di Leandra D’Antone che ci eravamo messi sulle tracce di questo manoscritto che Luciano Barca accettò subito dopo di sottoporci.
Chiunque abbia dimestichezza con il lavoro editoriale sa che l’impatto con un dattiloscritto di tali dimensioni scoraggerebbe qualunque intrapresa editoriale. Non fu così nel nostro caso perché la lettura dei diari di Barca rivelò fin da subito molteplici ragioni per le quali senza indugio accettammo di pubblicarlo.
Potremmo riassumere queste ragioni in tre verbi.
- Ricordare
- Conservare
- Trasmettere
Tre verbi che possono rappresentare una sintesi, ancorché una sintesi aperta ad integrazioni, del lavoro culturale che sta dietro la scrittura e la diffusione editoriale della memorialistica storica. Il caso delle Cronache dal PCI di Luciano Barca, del quale sono orgogliosissimo editore, ben rappresenta, anche per la sua consistenza materiale e densità concettuale, l’eccellenza della pratica memorialistica; e testimonia la sua imprescindibilità per chi voglia iniziare un lavoro storico serio e non di seconda o terza mano, sul periodo e sulle vicende ivi raccontate.
Va anche detto che quegli appunti, sebbene, alcuni, rivisitati e talvolta aggiornati con delle glosse postergate, presentavano caratteristiche di insolita schiettezza, insieme ad un pathos politico ed umano tanto controllato e discreto quanto non superficiale o di circostanza.
Un intellettuale disciplinato, responsabile della vita degli altri, sempre orientato a fare il proprio dovere di cittadino, sempre leale, anche verso i suoi detrattori, talmente amante della libertà da non piegarsi mai al ritualismo del ‘gruppo’ fino a essere disponibile a pagar dazio per questo.
Giova anche ricordare che fummo colpiti dalla delicatezza con cui qua e là nei tre tomi accennava alla sua famiglia: i figli Fabrizio, Flavia e Federico, per non dire della moglie. Se i segretari del PCI (Togliatti, Longo, Berlinguer, Natta) erano citati complessivamente 891 volte, la Signora Gloria Campos Venuti sposata Barca, Luciano trova il modo di citarla 123 volte. Più citazioni di Chiaromonte, più di Pajetta, Napolitano, Natta, Alicata, Macaluso, dello stesso Aldo Moro.
Ci era sembrato insomma di cogliere in quei frammenti di diario la robusta presenza dei valori italici più profondi, la riscoperta dei quali, insieme alla sempre auspicata partecipazione alla politica, è assolutamente necessaria oggi per la ripresa del nostro paese.
Consentitemi però di allargare un attimo lo sguardo sul problema e sulle opportunità rappresentate da opere come questa, sempre più rare nel nostro panorama. Temo anzi che saremo le ultime generazioni a godere di riflessioni così articolate sul proprio passato recente, anche perché i modi di raccontare e di raccontarsi, sempre più influenzati dalla tecnologia, sono cambiati e cambieranno vertiginosamente. Non demonizzo certo l’innovazione, ma una pagina di blog è cosa assai diversa da una pagina di diario. Che resta un fatto privato, anche quando si decida di offrirlo all’attenzione di terzi. Gli stessi post o tweet dei social network applicati alla dinamica politica, sia che riportino per istantanee le dichiarazioni di leader o di interpreti più o meno autorevoli, sia che diffondano semplicemente gossip di corridoio o che veicolino umori di risentimento, un domani, semplicemente, non saranno ricordati; e non saranno utili, per chi verrà dopo di noi, nel comprendere cosa sia davvero successo oggi.
Si aggiunga infine che, in una congiuntura in cui il virus del presentismo intende fare piazza pulita di qualsiasi traccia di cultura politica all”interno dei partiti come delle istituzioni, il ruolo della memorialistica e di chi propone, come autore o editore, una qualsiasi riflessione sulle tradizioni politiche sembra anacronistico e superato.
Ma questo ruolo non è ancora “rottamato”. Perché i personaggi e i gruppi passano, ma non passano le eredità che essi lasciano, nel bene e nel male. Dico nel bene e nel male perché chi accetta di approcciarsi alle opere di memorialistica deve alzare doppiamente la guardia nei confronti del giudizio che in esse si dà di vicende e personaggi. In una parola, della Verità che queste opere intendono raccontare. Solo attraverso l’accettazione del chiaroscuro noi possiamo considerare queste opere come fonti storiografiche necessarie. Necessarie a smitizzare le tinte forti con le quali si scrivono i manuali di storia o gli articoli degli opinionisti nei quotidiani. Per tacere delle sommarie ricostruzioni televisive che, dietro la necessaria semplificazione del linguaggio, possono recare anche una forzosa declinazione dei rapporti fra causa ed effetto degli eventi raccontati, fino alla iconizzazione distorta di figure storiche).
Con ciò voglio dire che l’intento di chi ricorda, conserva e trasmette elementi e memorie di cultura politica non è (almeno primariamente) un intento apologetico. Certo, le testimonianze possono essere parziali o partigiane. E il loro uso politico può iniziare sin dalla loro scrittura o selezione, ancor prima cioè di raggiungere il pubblico di lettori e interpreti cui sono destinate. Ma quasi sempre occorre riconoscere a sforzi intellettuali di questo tipo la volontà di incidere sulla storia, per condizionarne la percezione, per ripristinare verità perdute o semplicemente per ricostruire l’esatto svolgimento di fatti spesso travisati o colti in modo non esatto dalla storiografia.
Guardate bene che questa ambizione di fare la storia è essa stessa sintomo di una passione politica sana. Oggi la politica sembra essere ridotta a manutenzione del presente, priva com’è di slanci ideali e di visioni di medio-lungo periodo. Il consumismo dei principi e dei valori politici si è fatto frenetico. C’è un cimitero di documenti programmatici, carte di valori, preamboli, retorica, che giace ammassato a fianco dei tornanti lungo cui si è sviluppata o meglio, avviluppata, la vita politica recente del nostro Paese.
Avviene così perché anche la memoria delle grandi conquiste di civiltà che abbiamo raggiunto dal dopoguerra in poi tende ad essere sempre meno condivisa e sempre più individualizzata. Conta insomma chi racconta cosa, e non piuttosto quanti si trovano a condividere una esperienza. Attenzione: affermo tutto ciò da liberale, cioè dalla prospettiva di uno che non crede che il tutto sia necessariamente superiore alla parte, e che occorra sempre salvaguardare i diritti delle minoranze e degli stessi singoli rispetto alla esuberanza delle grandi costruzioni ideologiche, ufficiali, di gruppo, di partito o di parrocchia che siano.
Ma quello che intendo dire con amarezza qui, è che lo story-telling applicato alla dialettica politica porta sistematicamente a sacrificare sull’altare della narrazione e della conquista smaniosa di consenso quelle verità (al plurale e con la v minuscola) che gli uomini faticosamente ricordano, conservano e trasmettono attraverso i loro sforzi di memoria e di attenzione.
Le Cronache di Luciano Barca, accanto ad altre opere che raccontano le vicende di altre culture politiche e dei loro epigoni, sono invece un grande sforzo per riaffermare proprio la necessità di un confronto aperto e generoso sulle eredità di queste stesse tradizioni politiche. Sui loro successi e sui loro limiti. Sulla necessità di un passato condiviso, anche se non necessariamente condivisibile da tutti (sempre viva la libertà di dissenso!), perché in quell’arazzo spesso incomprensibile che è la nostra storia, noi si riesca a captare delle macchie di colore che ci facciano intuire il senso dell’ordito globale e della nostra personale fatica.
Qualcuno disse che siamo nani sulle spalle di giganti. Oggi all’orizzonte giganti non se ne vedono, e forse dobbiamo rassegnarci a camminare in fila come nanetti operosi, gli uni seguendo i passi degli altri per non perderci e ritrovare la strada verso casa. Ecco, opere come quella di Luciano Barca servono a illuminare la strada di casa, ma non per tornarvi e rinchiuderci in essa sterilmente; solo per suggerirci che se non ricordiamo chi e cosa siamo, da dove veniamo, non possiamo poi pretendere di guidare gli altri al di fuori del bosco. Col rischio di girare in tondo e perdere la magnifica occasione di cambiare le cose.
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