Storia, economia, società, cultura
a cura di Enzo Ciconte, Francesco Forgione, Isaia Sales
Da il Mattino 16 aprile
Si baciano sulla bocca, portano la barba come elemento di distinzione dagli altri «sistemi» criminali, postano i loro profili su Facebook, scrivono in arabo i loro nomi di battaglia, si tatuano la parola camorra sul collo e i nomi dei loro morti ammazzati sul corpo. Un ammiccamento al fondamentalismo islamico.
E un ritomo ai tatuaggi che si possono trovare su tutti i testi sulla camorra ottocentesca: questo miscuglio di arcaicità e di modernità è sempre stato nel tempo il tratto caratterizzante delle mafie, e tra esse delle camorre napoletane, e continuerà ad esserlo nel futuro.
Le mafie di casa nostra hanno due secoli di storia alle spalle e sono sopravvissute proprio per la loro duttilità e capacità di aderire al nuovo che improvvisamente si consolida in nuove abitudini, modi di pensare e di agire. Esse sembrano parte di quelle scorie che la modernizzazione si lascia dietro. E invece sopravvivono ai cambiamenti, anzi li cavalcano e li addomesticano, mettendoli al servizio del loro dominio criminale.
Non deve, meravigliare, dunque, l’approdo dei criminali e dei mafiosi sul web. I camorristi di cui parla oggi il Mattino, e di cui pubblica le foto, non sono i primi e non saranno gli ultimi.
Lo ha spiegato lucidamente Marcello Ravveduto in un saggio sulle «mafie nel web» che compare nell’ultimo volume dell’ Atlante delle mafie edito da Rubbettino. Il ragionamento è semplice: se il web è un’estensione della vita reale, è del tutto naturale che anche l’esperienza criminale diventi parte integrante dell’era digitale. Il bullo, il delinquente, il camorrista cercano la condivisione di un orizzonte culturale, una conferma della capacità «attrattiva» della violenza ostentata. Certo rompono lo storico «vivere appartato» della mafia, ma i camorristi in questo si sono sempre distinti dai cugini siciliani: per loro il potere va mostrato, va ostentato. Dove lo si può fare meglio che nel web?
In Italia ci sono più di 17 milioni di accessi al giorno a Facebook. «All’interno di questa maggioranza si situa anche la minoranza mafiosa che, a meno di futuri espliciti divieti delle organizzazioni, segue i trend della società delle comunicazioni di massa, confondendosi nella moltitudine di milioni di internauti collegati contemporaneamente».
Certo può capitare che un criminale utilizzi la rete come luogo di lavoro, dissimulando la propria identità per sfruttare a suo vantaggio rapporti «professionali» e amicizie online; ma nella maggior parte dei casi si trasporta l’identità criminale dal reale al virtuale per ricercare consenso al proprio modo di essere. «Il mafioso, ma anche chi è suggestionato o condizionato dalla mentalità mafiosa, entra nella rete alla ricerca di una “reciprocità” per condividere pensieri, atteggiamenti, gusti, consumi e stili di vita corrispondenti a un’ottica di potere deviante. Per loro la rivoluzione digitale non fa altro che amplificare e rilanciare alcuni stereotipi imposti dalla cultura televisiva». Mostrarsi è essere.
Chi associa la rivoluzione digitale a un livello medio di istruzione resta meravigliato che chi non sa scrivere neanche il proprio nome usi il computer o scriva in arabo. Ma il web è il dilettantismo culturale per eccellenza. E sembra congeniale ai riti dell’ appartenenza collettiva, come in alcuni clan di camorra.
Non dimentichiamo che all’epoca di Cutolo lo strumento di identità della sua organizzazione fu il libro «Poesie e pensieri» scritto dal «professore» di Ottaviano. Esso circolava come la bibbia criminale dei giovani violenti e sbandati che la Nco reclutava in carcere. La carica di aggressività e di distruttività di questi giovani si espresse in numerose lettere sgrammaticate che si scrivevano tra loro senza timore della censura carceraria e senza remore a raccontare segreti della propria organizzazione. Erano dei grafomani illetterati. In casa di Cutolo furono trovate un centinaio di lettere, così come a casa di Casillo, suo braccio destro. La parola scritta rappresentava un bisogno inarrestabile di esprimersi e di confermarsi come appartenenti ad una élite criminale, di testimoniare la propria fede nell’organizzazione: una identità fornita dalla violenza che né la scuola né il lavoro né la famiglia avevano loro saputo dare. All’epoca i camorristi scrivevano lettere ai giornali, facevano dichiarazioni e sopratutto rivendicano pubblicamente i delitti commessi.
Ieri Cutolo, oggi barbuti: è sempre pronto un esercito di riserva di giovani sottoproletari sbandati e inacculturati per essere arruolato in tutte le imprese di ventura che offre la violenza. È questo ciò che deve far riflettere: Napoli è permanentemente incinta di violenza.
di Isaia Sales
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