Strategia, impresa e sistema Paese. Intervista a Enrico Savio (Pandorarivista.it)

di Enrico Comin, Alessandro Strozzi, del 23 Dicembre 2022

Enrico Savio

Principi attivi di strategia

Confezione da 12 pillole (di varia dimensione e colore)

In un contesto globale in cui molteplici crisi e trasformazioni si sommano e si intersecano, declinare una visione strategica risulta al tempo stesso arduo e necessario. Uno sforzo che è richiesto non solo al decisore pubblico ma anche a quanti si trovano a ricoprire posizioni chiave nelle grandi imprese. Sul significato della strategia, nonché sulla sua declinazione, riflette in questa intervista Enrico Savio che dopo aver prestato servizio per trent’anni nella pubblica sicurezza e nella sicurezza nazionale, ricopre oggi il ruolo di Chief strategy and market intelligence officer di Leonardo. A questi temi Savio ha dedicato anche il suo recente libro: Principi attivi di strategia. Confezione da 12 pillole (di varia dimensione e colore)uscito nel 2022 per Rubbettino Editore.


Il concetto di strategia è centrale in molteplici ambiti, tra cui quello economico. Una grande impresa che opera in un settore cruciale, come Leonardo, non può prescindere dall’impostazione di una visione strategica. È dunque utile partire proprio da una riflessione su questo concetto. Che cos’è la strategia? Cosa significa declinare un approccio strategico in un ambito come il suo?

Enrico Savio: Preliminarmente bisogna dire che la strategia rappresenta l’essenza e la guida, difficilmente l’obiettivo, delle attività umane. La strategia è un approccio organizzato in base a contenuti teorici, pratici ed esperienziali, comunque un processo rigoroso attraverso il quale si mira ad un obiettivo e si cerca di raggiungerlo. Quindi in senso molto ampio, e non limitandosi alla ristretta definizione di strategia come arte militare, ma applicandola al novero delle attività umane, la strategia rappresenta lo strumento e allo stesso tempo il processo, per raggiungere un obiettivo. Come la si applica? Innanzitutto definendo gli obiettivi. Gli obiettivi del gruppo Leonardo non li definisce lo stratega, ma piuttosto esso studia e applica le sue conoscenze, i principi e i criteri con i quali si articola una strategia, per il raggiungimento degli obiettivi che il gruppo si prefigge. Nel caso di Leonardo, il grande cambiamento è stato l’evoluzione da un approccio di piano industriale articolato su 3-5 anni, ad un approccio di piano strategico articolato su un orizzonte di 10 anni e oltre. Questo è stato particolarmente apprezzato dal mondo esterno – che non è solo quello dei clienti, ma anche quello delle partnership, degli investitori e del mondo finanziario – che ha compreso quanto questo gruppo abbia iniziato a proiettare la sua ragion d’essere e la sua sostenibilità sul lungo periodo. Un primo risultato positivo è che il piano strategico di Leonardo, dal titolo “Be Tomorrow 2030”, è stato premiante anche davanti ad eventi asimmetrici, non convenzionali e sostanzialmente imprevisti, quale è stata la pandemia. Leonardo aveva un piano strategico, ne ha velocizzato l’esecuzione, e tale velocizzazione è stata la risposta alla sfida non-convenzionale posta dalla pandemia. La nostra capacità di resistere all’evento pandemico, supportando le supply chain, supportando l’ecosistema complessivo di Leonardo in chiave strategica, ci ha permesso di navigare attraverso questa tempesta che è occorsa all’umanità, che ancora oggi lascia i suoi segni e implicazioni.

 

Leonardo ha presentato il suo piano strategico decennale, “Be Tomorrow 2030”, nel 2020. Lei è stato protagonista di questo sforzo, teso ad elaborare una visione. A questo proposito aveva dichiarato a Fortune Italia: «Non investire sul futuro significa negarsi il futuro». Quali sfide pone l’articolazione di una tale visione strategica in un contesto globale incerto come quello in cui viviamo? Come si fa strategia all’interno di una grande impresa?

Enrico Savio: Innanzitutto invertirei l’ordine delle risposte, affinché il prodotto non cambi. In una grande impresa bisogna calarsi e immedesimarsi totalmente, comprendere in profondità le sue caratteristiche – nel caso di Leonardo parliamo di una realtà con più di settant’anni di storia e di attività alle spalle, quindi con una legacy molto forte – appoggiare saldamente i piedi su tale tradizione, capire attraverso quali processi trasformativi bisogna passare per predisporsi a raccogliere gli elementi necessari a procedere verso l’innovazione con una visione chiara di missione e contenuti, che poi si traducono in attività, soluzioni e prodotti, necessari al mastering the new per essere pienamente protagonisti del nuovo che viene. Questo è, a mio giudizio, il modo di fare strategia di lungo periodo in un’azienda fortemente tradizionale. Ed è, in effetti, quello che stiamo facendo: il verbo be in “Be Tomorrow 2030” significa interpreta il presente ma pensa contestualmente a cosa vuoi essere domani (tomorrow). “Be Tomorrow” è una sorta di sintesi comunicativa che ci serve, unitamente al traguardo cronologico 2030, a configurare la nostra identità da qui a dieci anni e oltre. Bisogna avere la capacità di collocare il “noi” nel futuro, non proiettando l’“as is”, cioè l’attualità, ma il “to be”, il film che si deve ancora girare. Oggi magari appare immaginifico, ma domani diventerà realtà produttiva, geopolitica, sociologica e non solo economica. Da questa capacità si valuta l’efficacia di una funzione dirigente, sia essa pubblica o privata.

 

Il concetto di futuro è spesso associato a quello di innovazione. Ciò vale a maggior ragione in un settore ad alta intensità tecnologica, come quello dell’AD&S (Aerospazio, Difesa & Sicurezza). Qual è il ruolo dell’innovazione in questo comparto? In più, che rapporto vi è oggi tra mondo civile e militare nello sviluppo di nuove tecnologie? Qual è, a questo proposito, un modello Paese che lei ritiene vincente?

Enrico Savio: I settori dell’aerospazio, difesa e sicurezza – ad alta densità e intensità tecnologica – sono elementi fondanti dell’essenza e della ragion d’essere degli Stati. È inevitabile che nella concezione moderna dello Stato sia necessario salvaguardare non solo i confini fisici, come sempre storicamente è stato, ma anche quelli virtuali; guardiamo al quinto dominio cioè il cyberspazio. Le esigenze di sopravvivenza – l’homo homini lupus è tornato di grande attualità – e l’uso legittimo della forza, fondato su statuti, regolamenti e consenso nelle democrazie, declinato in base ad altri criteri nelle autocrazie, sono tra le caratteristiche dell’umanità che attraversano i secoli. L’uso della forza deve essere supportato dal mantenimento di un primato tecnologico. Qui veniamo all’eterna sfida tra lo scudo e la lancia: più forte è lo scudo più resiste alla lancia, viceversa più forte è la lancia più buca lo scudo. L’innovazione legata al mantenimento di un primato tecnologico spiega la ragione dell’elevata intensità di innovazione nel settore AD&S, che sta cambiando le sue forme e i suoi contenuti, ma concettualmente rimane la stessa nel corso dei secoli. Il ruolo dell’innovazione in questo comparto è fondamentale: lo sviluppo tecnologico di una piattaforma o di un concetto applicativo, che con il passare del tempo trova un suo ciclo di vita e una sua evoluzione, porta ad un salto di paradigma verso una nuova soluzione, creando vera innovazione. Quindi l’innovazione è l’introduzione non solo di tecnologie, ma anche di invenzioni all’interno dei processi di interazione umana, che consentono di fare un salto paradigmatico anche all’interno di uno stesso dominio. Si prenda ad esempio l’ala rotante: l’elicottero ha caratteristiche che risalgono a settanta anni fa. L’introduzione di nuove tecnologie, come il cosiddetto Tilt – Rotor, cioè rotore basculante, modifica in maniera radicale le capacità esprimibili dalla macchina ad ala rotante. È un’innovazione che permette sia il volo verticale che orizzontale con prestazioni dell’elicottero e dell’aereo che convivono sulla stessa piattaforma: il convertiplano. Ci sono già applicazioni operative negli Stati Uniti di questo concetto – per esempio il V-22 Osprey di Boeing – che danno un’idea di come il paradigma possa evolvere da questo punto di vista. Il rapporto tra mondo civile e mondo militare è storicamente di stretta interconnessione, poiché, come detto prima, l’integrità morale e ordinamentale di uno Stato dipende dalla capacità di difesa dei suoi confini materiali e immateriali. Questa capacità di difesa è legata alle relative tecnologie, strettamente interconnesse con le applicazioni nella vita ordinaria e civile. Potremmo citare una serie sterminata di applicazioni che dal mondo militare giungono a noi. È chiaro che è facile perdere di vista il nesso tra il mondo civile e la capacità di difesa, di resilienza. Tuttavia, in quella che oggi è la nuova fase di post-industrializzazione, l’era digitale che si è aperta sotto i nostri occhi, questa interconnessione tra mondo civile e militare sta diventando intrinseca in maniera crescente; è difficile pensare che i grandi investimenti nel mondo digitale da parte delle aziende cosiddetto upscaler, non siano legati alla crescita delle capacità da parte delle strutture militari. Si guardi al concetto di ibridazione delle forme di conduzione delle attività belliche e si comprende come, ad esempio, un attore di giovane età, civile, con capacità informatiche o cibernetiche evolute, sia perfettamente integrato in un dispositivo di attacco o di difesa, in un dominio quale quello cibernetico, che ha anche riverberi sul piano fisico: se si colpisce un sistema SCADA (supervisory control and data acquisition) – che presiede al funzionamento di reti di dispacciamento energetico – è chiaro come si producano effetti fisici. In Georgia nel 2008 ha avuto luogo un attacco cibernetico da attori non convenzionali su strutture civili che però concorrevano alla resilienza del Paese attaccato. Quindi vediamo come la digitalizzazione stia molto avvicinando i margini tra i due ambiti. Lo scontro in campo aperto, come stiamo vedendo in questo periodo, c’è sempre, perché la dimensione fisica sul terreno è fondamentale dal punto di vista strategico, ma non può non essere legata alle componenti civili, che sono ormai parte integrante di una visione strategica d’insieme. Per rispondere alla terza parte della domanda, ritengo che un modello Paese adatto all’era digitale sia quello che riesce a trovare il giusto bilanciamento degli interessi. La società che riesce a bilanciare il profitto economico con il soddisfacimento dei bisogni di tutti è la società ideale. Oggi questo rischia di divenire utopistico, perché gli squilibri sono particolarmente manifesti. La globalizzazione ha prodotto dei frutti velenosi, ma è altrettanto evidente che l’ipotesi di un venir meno della globalizzazione sia un ragionamento per assurdo. Tutto questo porta alla riflessione su quale modello, più che quale Paese, sia vincente: anche l’impero che ha dominato il secolo scorso, quello statunitense, deve confrontarsi con modelli emergenti, verso i quali è fortemente accesa e sentita una competizione diretta, prima che geostrategica e geoeconomica. L’economia del modello nordamericano è stata l’architrave della nostra odierna capacità di crescita. L’Italia si trova in una dimensione peculiare, pur poggiando su una fortissima alleanza transatlantica. Siamo un attore autonomo e indipendente all’interno di un bacino di riferimento che è il Mediterraneo. Da ciò deriva che noi possiamo essere considerati un riferimento per i Paesi del cosiddetto Mediterraneo allargato. Quindi mi sembra che andiamo in una direzione dove il modello vincente sarà un mix di sostenibilità, non solo ambientale, e opportunità: se prevale l’opportunità abbiamo elevati profitti per i pochi, ma se perseguiamo anche la sostenibilità sul lungo periodo avremo un migliore bilanciamento nel senso sopraesposto.

Lei ha trascorso trent’anni a servizio del nostro Paese. Come definirebbe i concetti di sicurezza e interesse nazionale? Di fronte ai nuovi scenari geopolitici, ritiene dovrebbe essere più diffusa nella cittadinanza la consapevolezza delle implicazioni di tali concetti?

Enrico Savio: La sicurezza nazionale non è ancora definita normativamente in questo Paese. Tuttavia, può essere considerata come l’insieme delle capacità esprimibili dalle Istituzioni preposte alla tutela dell’interesse nazionale. Quest’ultimo, allo stesso modo, non ha trovato ad oggi una definizione normativa puntuale e questo è in larga parte il frutto della storia che precede la dimensione unitaria del nostro Stato. Ci vuole tempo affinché l’interesse nazionale diventi cointeressante all’identità e all’appartenenza che un popolo alimenta all’interno di una forma Stato. Siamo soliti paragonarci a realtà statuali limitrofe come la Francia, ma in questo dimentichiamo di valutare appieno le vicende storiche che hanno determinato, assai prima della nostra unità nazionale, prima il Regno e poi la Repubblica francese. Detto questo, molte sono state le iniziative positive e proficue che il nostro Paese ha intrapreso a tutela dell’interesse nazionale. Abbiamo una straordinaria legge di riforma, la 124 del 2007, che ha trasformato gli strumenti di sicurezza nazionale in efficienti istituzioni al servizio del Paese. Naturalmente, come ogni norma di rilievo, nel corso del tempo può comportare la necessità di aggiornamenti, ma sino ad oggi lo strumento normativo ha permesso di raggiungere gli scopi prefissati dal legislatore. Da ultimo potrei citare l’istituzione dell’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale cui è affidata la missione di tutelare gli assetti digitali e critici racchiusi nel Perimetro di Sicurezza Cibernetica Nazionale. Due esempi di adeguamento del nostro Paese alle sfide del terzo millennio. Tra queste sfide particolarmente rilevante è quella relativa alla dimensione spaziale. Le due nuove dimensioni o dominii del cyberspazio e dello spazio sono strettamente interconnesse: non vi sarà geopolitica nel futuro che non sia digitale e non vi sarà geopolitica nel futuro che non sia anche geospaziale. Questo tema è stato affrontato anche in un numero della rivista «Limes», al quale abbiamo fornito il nostro contributo, perché crediamo fortemente che la dimensione spaziale sia anche geospaziale. Noi oggi abbiamo una percezione dello spazio che nella maggior parte è quella di una frontiera di ricerca avanzata, dove si testano materiali, si esplora il fascino delle stelle nascoste. Ma tutto questo deve avere una ragion d’essere e un obiettivo: non solo la voglia indomita di scoperta dell’uomo, ma anche componenti geostrategiche, che consentono dallo spazio di influire sulle cose della terra e dello spazio, inteso come ecosistema in cui convivono rischi, minacce e grandi opportunità.

Spesso nel dibattito relativo ai problemi del sistema Paese emerge la questione della riforma della pubblica amministrazione. Al di là del richiamo allo “snellimento della burocrazia”, tale riforma appare necessaria affinché l’Italia possa sviluppare appieno il proprio potenziale nel quadro di una complessiva “grand strategy”. Quali potrebbero essere le innovazioni istituzionali a suo avviso necessarie? L’Italia ha bisogno di un National Security Council e di un National Security Advisor, sul modello statunitense?

Enrico Savio: Siamo di fronte a un circolo che può essere virtuoso, ma anche farsi vizioso, se male interpretato. Se si ha un obiettivo da raggiungere in maniera strategica, uno strumento utile può essere la semplificazione dei processi, che però non consiste solo nello snellimento della burocrazia. Un eccesso di normazione – sia primaria che secondaria – è causato dall’elevato tasso di polemicità e di contenzioso in un determinato contesto territoriale, che riduce il tasso di fiducia tra collettività e istituzioni. Le cose semplici si complicano facilmente, se l’attitudine di chi deve attuarle è prevalentemente rivolta all’autotutela. Qui si trova l’innesco perverso della burocrazia: tutto questo influenzato costantemente da nuove norme, nuovi protocolli e nuovi processi. A questo si aggiungono poi gli standard internazionali, cui un Paese evoluto come il nostro deve sottostare e adeguarsi. Siamo un Paese con la testa nel nord Europa e i piedi nel Nordafrica. Siamo un Paese che vive di industria, agricoltura, turismo, servizi: settori che ricevono normative e regolamentazioni di indirizzo europeo. Per la compliance a queste normazioni sono necessari sforzi enormi e, oltre a ciò, vi è un ulteriore fattore: l’elemento securitario. C’è un prima e un dopo l’undici settembre. La fiducia globale ha subito un colpo durissimo da quell’attacco che ha portato all’introduzione di nuovi approcci burocratici, necessari, ad esempio, per poter prendere un aeroplano. È stato messo in discussione il rapporto di fiducia tra il singolo e la collettività. Si è creata una selva normativa, più che burocratica, che le burocrazie – che in sé non sono un male, ma modello di gestione di un interesse collettivo – devono attuare. Ma gli uffici – burocrazia deriva dal francese bureaucratie, che unisce bureau e -cratie (suffisso che indica un tipo di governo) – devono essere guidati da norme chiare e da modelli di efficienza. Insomma, dire aboliamo o semplifichiamo la burocrazia non ha molto senso. Occorre semmai delegificare: eliminare quello che non serve, che magari residua dal passato e su cui si innestano gli sviluppi presenti. Questo è un elemento di semplificazione che a mio giudizio si traduce in maggiore competitività. Per grand strategy si intende il definire con chiarezza il proprio ruolo nel mondo come Paese. Cos’è l’Italia? L’Italia è una media potenza, uno dei Paesi più industrializzati del mondo, con un patrimonio artistico e naturalistico senza uguali; un Paese che si allunga in un bacino idrico che si chiama Mediterraneo e ha infinite interazioni con gli altri Paesi che vi si affacciano. Definire bene il proprio ruolo significa concretizzare la grand strategy, cioè essere padroni dei propri valori e saperli proiettare all’estero in maniera legittima e rispettosa. Cosa che l’Italia sa fare, ovunque nel mondo. Rispetto alla questione sull’opportunità di un National Security Council italiano la mia risposta, venendo da quel mondo, è: sinceramente no. Il sistema di sicurezza nazionale trova una dimensione collegiale all’interno di un comitato ristretto composto da sei Ministri, che rappresenta di fatto il nostro National Security Council: il CISR, che assiste il Presidente del Consiglio in tutte le sue funzioni, mentre il Parlamento ne controlla l’operato. Il Presidente del Consiglio, nell’assunzione delle sue decisioni di interesse e sicurezza nazionale, è accountable, cioè responsabile verso il Parlamento. Riferisce due volte l’anno con una relazione semestrale di alta classifica al COPASIR e al parlamento nel suo insieme con una relazione annuale che viene resa pubblica e accresciuta nel tempo in contenuti ed esplicitazione di minacce e opportunità per il Paese. Un ipotetico nuovo National Security Council italiano rischia di essere una sovrastruttura che si sovrappone a un impianto che già è bilanciato. Abbiamo fatto tanta fatica nei decenni passati a superare determinati schematismi negativi, stereotipi che riguardano mondi che non erano manifestamente visibili e a disambiguare il concetto di segreto, di riservato e di sensibile, da quello di mistero, che tante incomprensioni ha generato.

L’attuale conflitto ucraino ha confermato il ruolo essenziale che rivestono i cosiddetti Quarto e Quinto dominio: lo spazio e il cyber. Quale ritiene sia l’approccio strategico corretto per governarli? Cosa si intende per approccio multi-dominio?

Enrico Savio: L’approccio strategico per governare il Quarto e il Quinto dominio è basato sulla visione innovativa. Anche qui, occorre definire l’obiettivo legato alle caratteristiche del Paese. Siamo una potenza spaziale? Sì. Quindi, per quanto riguarda il Quarto dominio occorre adeguarsi a questo status: prendere consapevolezza, fare investimenti e destinare risorse. Che cosa vogliamo essere? Occorre concentrarsi in questi settori, che ci garantiscono competitività e sostenibilità. Ciò è funzionale anche alla costruzione di una dimensione europea ed extraeuropea di spazio condiviso. Non si può pensare di essere chiamati a sedersi al tavolo se non si hanno le fiches per giocare la partita. Inoltre, gli investimenti in questo dominio sono ad elevato rendimento. Non sono investimenti in pari o in perdita quelli nello spazio, poiché coniugano tante dimensioni: quella dell’osservazione della terra – che significa contrasto al dissesto idrogeologico, agricoltura di precisione, verifica delle infrastrutture – quella della connettività, funzionale a una società digitale, quella dell’articolazione dei processi economici, quella della sostenibilità ambientale. Per questo nel nostro piano strategico “Be Tomorrow” abbiamo introdotto il concetto del global monitoring: avendo Leonardo la disponibilità dell’intera filiera che va dal satellite in orbita fino al sensore all’angolo della strada, può avere un approccio globale al monitoraggio di tutti questi ambienti menzionati. Ecco perché è fondamentale investire nello spazio, sapendo con chiarezza chi si è e dove si vuole andare. Stessa cosa vale per il Quinto dominio, quello cibernetico. L’Italia può essere parte di un sistema di alleanze e condividere a livello europeo moltissimi degli aspetti sistemici e strutturali che riguardano la dimensione cyber, ma fintantoché i concetti di Stato Nazione e sovranità nazionale saranno centrali occorrerà tutelarli, attraverso l’autonomia delle scelte tecnologiche che servono a supportare il cittadino digitale. Come potremmo dire ai nostri concittadini che i loro dati non sono protetti da un’autorità autonoma e sovrana? Per questo Leonardo è tra gli attori principali del Cloud Nazionale nell’ambito del Polo Strategico Nazionale (PSN). Mantenere una capacità autonoma anche all’interno di sistemi complessi e articolati che vanno al di sopra e al di là dei nostri confini nazionali sarà cruciale. L’approccio multidominio è un frutto evolutivo dell’innovazione digitale, della capacità di calcolo unita all’algoritmo, la cosiddetta intelligenza artificiale, che consente di valorizzare volumi crescenti di dati in progressione geometrica. Il dato è il sovrano del futuro, da cui tutti dobbiamo attingere per ottenere capacità tecnologiche. Per farlo, aziende come Leonardo investono nella ricerca, nello sviluppo e nell’applicazione di principi tecnologici innovativi. Qui viene in gioco l’approccio multidominio, che consente, senza dover risalire la verticale di ogni singolo dominio per poi trovare un punto di connessione, di essere trasversali a tutti i domini in contemporanea, per la trasformazione della realtà in dato.

Nella sua recente pubblicazione Principi attivi di strategia lei enuclea due concetti, «la solitudine dello stratega nella moltitudine dell’umanità» e «la religione dell’algoritmo come anti-strategica». Può approfondire queste categorie? In particolare, che ruolo gioca la dimensione soggettiva dello stratega? I rischi preconizzati da Henry Kissinger in The Age of AI sono concreti?

Enrico Savio: Lo scopo del volume è quello di mettere a disposizione di una generazione nata dopo il 2000 una modesta e individuale esperienza. La solitudine è una delle dimensioni dello stratega, perché richiama con sé il concetto dell’accountability, della responsabilità delle decisioni e sostanzialmente del ruolo della leadership. In una società iper-digitalizzata, ultraveloce, il concetto di “tutto e subito” si afferma con rapidità e i modelli di riferimento tradizionali – a cui è stata abituata la mia generazione – diventano obsoleti. L’obiettivo del libro è quello di mettere a disposizione un insieme di esperienze vissute, senza considerarle come assolute o paradigmatiche, anche perché il libro professa proprio il contrario: la flessibilità e l’apertura del pensiero come metodo di elaborazione per lo stratega, che invece il paradigma di solito non consente. La solitudine è un valore, non ha una connotazione negativa, ma richiede consapevolezza. Si deve sapere che se si vuole essere leader in qualunque campo, anche soltanto nella propria vita, sapendone cioè disporre, a volte è necessaria la solitudine. Molto spesso la solitudine non è richiesta, ma giunge da sola: una decisione in un pronto soccorso del medico di domani, una decisione in una base spaziale dell’astronauta di domani, la decisione nella fabbrica di domani che sarà tutta digitalizzata, troverà il decisore mediamente solo ad affrontare la responsabilità, solo ad affrontare le conseguenze. Bisogna educarsi a questo. Dall’altro lato qual è il bilanciamento? La capacità e l’attitudine a lavorare in gruppo, perché la solitudine non è da intendersi come sinonimo di individualismo. La capacità di ascolto, la capacità di integrazione, di lavoro in squadra, viaggiano insieme alla gestione della solitudine. La religione dell’algoritmo è una metafora. Il tema è quanto il feroce fanatismo dell’algoritmo rischi di rendere secondaria la persona umana. Nel quadro di una visione strategica, bisogna riportare prima il pensiero al centro come propulsore, poi valorizzare la logica dell’algoritmo che governa l’intelligenza artificiale. L’intelligenza, se abbiamo la necessità di abbinarci un aggettivo, che è artificiale, significa dover definire qualcosa di diverso. Per sommi capi, ad oggi l’intelligenza artificiale è sostanzialmente razional-prestazionale, cioè a fronte di determinati input fornisce – in tempi assai competitivi se non sovraperformanti rispetto al cervello umano – soluzioni razionali e funzionali. Noi sappiamo però che il pensiero umano è arricchito da una componente che si chiama intelligenza emotiva. Ecco dove non bisogna cadere: nella sostituzione del mix tra intelligenza razionale ed emotiva, con la sola intelligenza razional-funzionale, perché le cose umane sono fatte anche di intelligenza emotiva. Attenzione, intelligenza emotiva non è emotività, sulla quale il libro si sofferma: il controllo dell’emotività è fondamentale, il non lasciarsi dominare dalle emozioni significa strutturare il pensiero in chiave finalistica, in chiave esclusiva ma non escludente: io sono uno ma anche gli altri esistono. Utilizzare l’intelligenza emotiva assieme all’intelligenza razionale è cruciale. Ecco perché non credo in una “religione dell’intelligenza artificiale”, se l’espressione è consentita.

Tre concetti che emergono consultando il suo libro in relazione alla figura dello stratega sono quelli di responsabilità, umiltà e silenzio. Qual è il loro significato?

Enrico Savio: Ritengo che questi concetti delineino la via più ardua, ma anche più remunerativa, per poter affermare le proprie strategie se si è figli del terzo millennio. Si tratta di tre elementi non facili da praticare. Pensiamo alla responsabilità: quando le cose vanno bene è facile attribuirsi un successo individuale, meno facile quando le cose non vanno bene e si tende ad attribuire la responsabilità ad un’indistinta collettività. Questo va detto alle nuove generazioni: non pensate di poter decidere per poi essere affrancati dalle conseguenze. Se ci si sporca le mani, in ogni senso, bisogna essere pronti anche a gestire la responsabilità. Umiltà significa invece ascolto, apprendimento e rispetto. Se ci si sente particolarmente forti, perché la propria propaggine digitale amplifica di “N” volte la propria proiezione personale, si rischia di perdere di vista il fatto di avere i piedi sulla terra e di essere come gli altri esseri umani. Umiltà significa allora contrasto all’individualismo, perché se si è uno di “N” allora si può cominciare a pensarsi in un meccanismo relazionale. Qual è la caratteristica distintiva dell’essere umano nel mondo animale? Il fatto che camminiamo su due zampe? No, lo fa anche il canguro. È il fatto di cooperare. Abbiamo la capacità di cooperare e di unire le forze per costruire un villaggio, una diga, una centrale elettrica, persino una stazione orbitante. È attraverso la cooperazione che si arriva a realizzare determinati obiettivi. Io sono uno di “N”, con il mio valore, con la mia capacità di contribuire: questo è il messaggio che cerco di trasmettere ai miei due lettori d’elezione, i miei figli. Quella del silenzio è una dimensione che viene legata ad esperienze ascetiche, esperienze di allontanamento. Parlare del silenzio come valore nella società del rumore è qualcosa di alquanto non convenzionale. Ma il silenzio è funzionale ed essenziale, come pratica alla base dell’elaborazione del pensiero. Il pensiero si elabora in silenzio, la lettura si fa in silenzio, l’ascolto si fa in silenzio. Quando non diventa patologico, quando non è generato da senso di inadeguatezza o timore di espressione, il silenzio è trasversale al miglioramento della capacità di elaborazione del pensiero, combustibile dell’elaborazione strategica.

Nella prospettiva di una possibile autonomia strategica europea e nell’ottica della definizione di una difesa comune quale può essere il contributo dell’Italia? In particolare, in relazione alla difesa comune, la maggior parte della riflessione si concentra usualmente sul piano delle policy, dimenticando la dimensione delle capability e delle esigenze operative concrete delle forze armate. Quali considerazioni si possono svolgere a proposito?

Enrico Savio: Anche qui è fondamentale mettere a fuoco gli obiettivi strategici. Vogliamo essere rilevanti nel mondo di domani, o meno? It’s about relevance. I numeri hanno da sempre fatto la differenza nei rapporti di forza dell’umanità. Allora confrontiamoci con la realtà: vi sono circa un miliardo e 400 milioni cinesi, oltre 1 miliardo e 300 milioni indiani. Potremmo ricordare altri dati, ma penso questi siano sufficienti, a fronte di un’Europa che conta 500 milioni di abitanti e di un medio Paese europeo come l’Italia che ne ha 60. Parlando di Europa politica, se non si coglie l’obiettivo strategico comune, non si può avere né una proiezione geopolitica né una strategia di difesa condivisa. Questo comporta la rimodulazione bilanciata dell’esclusività sovrana del singolo Stato membro. Per una causa comune è necessario, anche in un campo applicativo molto ristretto, una convergenza sul concetto di sovranità condivisa, se ci si passa l’ossimoro, senza la quale non c’è una politica estera e non c’è una politica di difesa comune, che sia all’altezza delle sfide geopolitiche di questo millennio. Sono fiducioso nel processo di costruzione europeo: come industria stiamo facendo la nostra parte, cercando di aggregare componenti dell’industria europea per diventare più forti, cercando di unificare determinate capacità per poterle meglio indirizzare verso il mercato mondiale, esercitando un ruolo verso le nostre istituzioni nazionali, sempre guardando alla dimensione europea. Leonardo ha un track record di gare nei programmi di finanziamento europeo, come lo European Defense Fund (EDF), elevatissimo. Quest’anno ci siamo aggiudicati circa 60 milioni di euro per attività di Ricerca e Sviluppo nei più diversi settori, un aspetto che mi fa piacere sottolineare. Al di là di questo occorre aspettare – e questo va al di là dei compiti dell’industria – che le constituency politiche europee facciano un passo in avanti. Di fronte a minacce come la crisi ucraina si potrà forse assistere alla nascita di un primo nucleo di forza. Con attenzione, perché la forza è una cosa, la capacità di proiezione di quella forza è un’altra e la volontà di proiezione è un’altra ancora. Volontà di proiezione significa mettere in conto i rischi che qualunque confronto militare comporta. È chiaro che la condizione di pace così prolungata, di benessere sostanzialmente così diffuso e di prospettive di crescita così radicate, fa pensare sul perché mettere tutto in discussione. Abbiamo cambiato secolo, dobbiamo prendere coscienza di questo adattando le capacità degli uomini e delle donne di oggi a quelle che sono le esigenze di domani.

Si afferma spesso che la filosofia militare occidentale si basi sulla strategia, mentre quella orientale sullo stratagemma. Ritiene utile questa schematizzazione? In un contesto globale in cui la competizione tra Stati Uniti e Cina assume una centralità sempre maggiore, quali implicazioni ha questa differenza di visioni strategiche?

Enrico Savio: Potrei rispondere con una parola: dipende. Il gioco degli scacchi e il gioco del go sono utili come esemplificazione di questo dualismo. C’è la conquista e c’è l’affermazione. L’affermazione può giungere anche per mera desistenza dell’avversario, oppure per il verificarsi di condizioni oggettive. Parliamo di sistemi, non solo di Stati Uniti e Cina. Nell’occidente non esiste il non-scontro (Sun Tzu nel suo L’arte della guerra afferma che la miglior forma è la non-forma: Bing zhe gui dao ye), esiste la conquista con l’uso della forza e, in alternativa, la reciproca deterrenza derivante dal confronto implicito tra forze opposte. La cultura strategica cinese è invece articolata sulla circolarità confuciana, sullo stratagemma e sulla dissimulazione funzionale a sostenere la (non) azione: nascondi le tue intenzioni, aspetta il tuo tempo è la sintesi. Se allora per quanto riguarda le visioni strategiche vi è una articolazione maggiore rispetto alle schematizzazioni, per trovare il punto dirimente dello scontro dobbiamo guardare alla complessità del rapporto tra i due modelli. Il modello occidentale si presenta come sostanzialmente liberista a velocità in qualche modo controllata, cioè un mix di profitto derivante dal capitale e di welfare, che ha consentito nel lungo periodo di pace che abbiamo vissuto di bilanciare interessi come propensione alla crescita economica e risposta ai bisogni degli individui. Dall’altra parte troviamo un modello di sviluppo, come quello cinese, autopropulso, avvantaggiato da una sagomatura delle regole ad uso e consumo della crescita, spinto da una necessità obiettiva e imponente: sfamare quasi un miliardo e mezzo di persone, in una estensione territoriale di tutto riguardo mantenendo l’integrità fisica dello Stato collettivizzato. In questo contesto, quali fattori possono far prevalere una struttura rispetto all’altra? Un elemento discriminante è la capacità di aderire alla propria visione del mondo e ai propri valori. Vi sono poi dei fattori obiettivi: la bomba demografica è una bomba vera, non necessariamente la sua traduzione in capacità produttiva avviene; ciò pone il problema della tenuta di questi sistemi. Per cui potremmo assistere a un lento declino del modello occidentale, oppure ad un’implosione neanche tanto graduale del modello orientale; o forse siamo in una fase di transizione che pone all’attenzione entrambe le tendenze. Questa fase sembra indicare una ridefinizione degli equilibri globali per corrispondere alla quale si rende necessario una più profonda consapevolezza da parte del mondo occidentale cui apparteniamo, rispetto ai valori d’insieme sui quali il nostro mondo è basato. È in atto un confronto tra libertà e autoreferenzialità. Se affrontato in chiave ideologica questo confronto potrà generare tensioni e conflitti. Da qui l’esigenza di investire nell’aggiornamento della capacità tecnologica, basata sulle regole, per assicurare sostenibilità di lungo periodo agli ordinamenti di cui ci sentiamo parte. Il primato tecnologico è anche pilastro della deterrenza verso iniziative geopolitiche unilaterali. Questa componente di digitalizzazione è molto meno marginale di quanto pensiamo. Sarà in grado di velocizzare determinati processi e catalizzarne altri, investendo trasversalmente la competizione globale e il ruolo dei sistemi socioeconomici.