Gli studi di Roberto Chiarini, già professore ordinario di storia contemporanea all’università di Milano, sono sempre preziosi. Chiarini, a differenza di altri storici, sa maneggiare le scienze sociali e i suoi lavori offrono sempre spunti interessanti: per fare un esempio il concetto di “integrazione (sistemica) passiva” , da lui impiegato in passato per spiegare l’ inevitabile parabola suicidaria di Alleanza Nazionale, resta forse una delle migliori chiavi per approfondire lo studio della destra postmissina. Per metterla sul personale, il concetto fu di molto aiuto a chi scrive per approfondire la figura di un intellettuale di destra, mai banale, come Giano Accame.
Ma veniamo all’antipolitica, ultima fatica di Chiarini (*). Seminale, dal punto di vista metodologico, il primo capitolo: “Il tradimento della democrazia”. In cui lo storico traccia magistralmente le linee guida concettuali della ricerca.
Andiamo subito al nocciolo: l’antipolitica può essere di élite (élite level) o di massa (mass level), o addirittura appartenere ai due livelli. Di conseguenza, nel primo caso può essere passiva, nel secondo attiva, nel terzo esplosiva.
Perché, di regola, la saldatura tra i diversi livelli determina crisi di regime, se non di sistema, o comunque transizioni politiche importanti. Quanto al populismo, si tratta di un fenomeno che attraversa, talvolta al galoppo, l’antipolitica. E che – mai dimenticarlo – rimanda sempre, dal punto di vista della genealogia del concetto, alla critica dell’idea liberale di rappresentanza e alle incongruenze, sempre risorgenti, del concetto, spesso fin troppo proclamato, di sovranità del popolo.
Pertanto, mentre la disaffezione, vissuta con spirito di tradimento, verso la politica, rinvia per certi aspetti alla democrazia dei moderni, l’antipolitica attraversa l’intera storia umana, andando oltre la suggestiva ipotesi di Constant. Nonché, va oltre le diverse tipologie di regime, ovviamente assumendo le forme storiche del tempo.
Sul punto – però probabilmente ne forziamo il pensiero – Chiarini sembra condividere la tesi di un insigne storico dell’antichità, Paul Veyne, che scorge alle radici dell’antipolitica una specie di apolitisme naturel . Ma Chiarini, alla fin fine, non insiste più di tanto sull’argomento e passa oltre.
Ovviamente, il quadro concettuale tracciato è molto più ricco. Qui, se ci si passa il gioco di parole, abbiamo schematizzato lo schema. Anche perché, e questo è un altro merito dell’ approccio, il professore è storico a tutto tondo, cioè usa le scienze sociali senza mai perdere di vista – per scomodare due giganti gnoseologici – la lezione di Dilthey e Max Weber. Ossia Chiarini distingue saggiamente (semplifichiamo i termini) tra approccio generalizzante e approccio individualizzante tipico delle discipline storiche.
Grazie agli acuminati strumenti, corretti dalla saggia consapevolezza che i tipi ideali (gli schemi) sono una cosa, gli uomini (come attori storici) un’altra, Chiarini prosegue sicuro nella sua galoppata cognitiva snocciolando fatti su fatti.
Infatti, nei successivi sei densi capitoli, lo storico ripercorre il destino dell’antipolitica italiana dall’Unità a oggi. Un “Paese” (per dirla secondo il galateo repubblicano), formatosi politicamente tardi, anche di controvoglia, quindi in qualche misura liberale per caso, incatenato però a tradizioni storiche inzuppate nel culto del famigerato “particulare”. Insomma, una specie di liberalismo Ikea dato in pasto o addirittura imposto, all’omerico popolo raffigurato da Pellizza da Volpedo. Simulacro su simulacro.
Di qui l’antipolitica elitaria degli eredi non sempre fedeli di Cavour, fomentata dall’antipolitica di massa, attraversata dal populismo delle moltitudini socialiste e cattoliche, imbevute di retorica antiborghese e antiliberale, presto tradottasi, per rimbalzo, in grossolana antipolitica diffusa in alto come in basso.
La “Grande Guerra”, nonostante i progressi indubitabili dell’Italia giolittiana, avrebbe reso ancora più insolubili in nodi dell’antipolitica postrisorgimentale, frutto di una generazione traversale di cervelli nutritisi, e male, alle fonti avvelenate di una critica durissima, talvolta ingiusta o comunque eccessiva (almeno a nostro avviso), delle istituzioni parlamentari. Chiarini, parla, e giustamente, di romanzo antiparlamentare: una forma narrativa che va ben oltre il puro caso letterario, perché spiega il diffondersi di un acido idem sentire antigiolittiano, in termini di filosofia azionista (semplificando), che accomuna, per effetto di ricaduta, figure dall’opposto destino politico come Gentile e Omodeo.
Un’ eredità antiliberale raccolta da Mussolini, in nome di una iperpolitica totalitaria basata sul partito unico e la nazionalizzazione forzata di masse ipopolitiche. Masse, che però nel secondo dopoguerra sarebbero tornate all’ovile dell’ipopolitica, delegando la politica ai partiti antifascisti, come in precedenza avevano delegato tutto il potere, volenti o nolenti, al partito fascista. Di qui, la “Repubblica dei partiti” e la relativa scomunica di ogni tentativo di critica alla “partitocrazia”, visto dalle dominanti élite repubblicane come un tentativo eversivo della destra fascista. Sempre. Anche quando a protestare erano Pacciardi e Maranini.
Di conseguenza, si aprirà una nuova esplosiva saldatura tra antipolitica (a ogni livello) e populismo, che è possibile dividere in tre fasi, progressivamente distruttive del bagaglio concettuale repubblicano e di una intera classe politica, dai democristiani ai socialisti, che come quella liberale dell’Ottocento, segherà da sola il ramo sul quale si era appollaiata.
La prima fase con Tangentopoli (populismo giudiziario); la seconda con Berlusconi, (populismo politico); la terza, con Grillo (populismo a tutto campo), fase aperta, che stiamo vivendo ( che occupa le ultime pagine del libro): una colossale ubriacatura da superalcolici populisti, che coinvolge anche i postcomunisti, usciti indenni da Tangentopoli, ma non dall’epidemia antipolitica e populista. Un’ ubriacatura, dicevamo, ben diversa dai camparini berlusconiani da consumare in dolce compagnia. Una fase, forse terminale ma comunque in corso, sulla quale, giustamente, da storico serio, Chiarini sospende il giudizio.
Il tratto comune riflessivo, che si evince dalla sua acutissima analisi, è quello di un’Italia che, probabilmente anche per colpa di certi liberali Ikea, non ha mai del tutto accettato la modernità politica. Tesi che condividiamo, e che – sintetizzando – implica a nostro giudizio il rifiuto di quattro cose: (1) della politica come professione e (2) dell’equa distinzione tra pubblico e privato, come (3) della giusta separazione tra stato e governo, e non ultima (4) della politica come mediazione, in primo luogo parlamentare (quindi, piaccia o meno, via delega, Sartori docet).
Di qui, crediamo, l’antipolitica ricorrente, vichiana, la “vena carsica”, il “basso continuo” per dirla con Chiarini, che riaffiora di volta in volta, con il volto dell’iperpolitica di Mussolini o con quello dell’ipopolitica (più apparente che reale) di Monti. Ovviamente, sullo sfondo della grande contraddizione italiana, che vede oggi in Grillo il profeta dell’impossibile conciliazione digitale tra ipopolitica e iperpolitica, tra alto e basso, tra democrazia diretta e leader carismatici.
Una specie di scommessa diabolica, se ci si passa l’espressione, sulla pelle degli italiani, che da ipopolitici “di dentro”, sembrano non comprendere i rischi del grillismo e dell’infantilismo politico, che pure è l’altra anima, dell’antipolitica. Ma questa è una nostra riflessione.
L’ottimo volume di Chiarini, una volta letto e chiuso, fa pensare alla celebre definizione dell’economia come scienza triste. Tralasciando qui le ragioni profonde, diremmo di filosofia della scienza, di tale definizione, si può però dire che anche la storia, proprio perché fondata sui fatti, è una scienza se non triste, quanto meno realistica: spiega le cose come sono. Di qui, la possibilità di intuire il corso degli eventi…
Del resto, il quadro così ben tracciato da Chiarini, rinvia a un meccanismo concettuale, come si diceva un tempo, da orologio svizzero. Schemi e descrizione, norme e fatti, lasciano poco spazio ai cosiddetti fantasisti della “storia controfattuale”.
Diciamo che è un libro a guardia dei fatti. E i fatti parlano da soli. Purtroppo.
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