“Storia dell’antindrangheta” di Danilo Chirico (Rubbettino editore, pagine 258, euro 16) è il libro che non c’era, e ora c’è. Chirico è un giornalista si può dire ormai di lungo corso, che però mantiene la faccia e l’entusiasmo dell’adolescente. L’ho conosciuto più di vent’anni fa quando lavorava a Reggio Calabria per un quotidiano e aveva la stessa faccia di adesso, e anche l’atteggiamento saggio e maturo del cronista che impara a farsi bravo da solo.
Oggi, è uno dei maggiori studiosi del fenomeno mafioso, soprattutto è esperto dell’altra faccia della mafia, quella più importante: la lotta alla mafia. Uno che studia i fenomeni e tutto quello che c’è intorno, di sociale potremmo dire. E’ il contrario di chi scrive di mafia per costruirsi fragili monumenti di antimafiosità che servono a illuminarsi di luce mediatica. La storia dell’antindrangheta, che Chirico ha scritto col mestiere collaudato di cronista, la passione del meridionale, che non si rassegna, e tanta cultura sociale, è un libro serio: colma un vuoto; dà concretezza e visibilità a qualcosa che molti credono non esista in Calabria. Perché nell’irredimibile territorio calabrese c’è la mafia, ma non si riconosce l’esistenza dell’antimafia; perché la Calabria è l’ultima isola d’infelicità del Sud, una regione dove la Costituzione, la democrazia e la libertà abitano altrove. Finora, quando si è parlato di antindrangheta, si è sempre parlato di antindrangheta con la partita iva – che pure esiste, ed è esistita – servita ad oscurare la Calabria antindrangheta che invece esiste e resiste. E’ fatta di uomini e donne, di movimenti e associazioni, di uomini della Chiesa e di antindrangheta sociale che opera nel concreto. Mancava questo libro, che ha la prefazione di Enzo Ciconte, autore per Laterza nel 1992 “Ndrangheta dall’Unità ad oggi”, il primo libro sulla mafia calabrese, che poi, in ritardo, dopo aver tenuto a lungo gli occhi chiusi, si è scoperto che è la più potente e ricca del mondo. Analogamente a Ciconte che ha scritto un saggio colmando un vuoto, Chirico il vuoto lo colma sull’altro versante: l’antindrangheta. Sono libri su temi che si pensava (si voleva pensare) non esistessero e invece esistevano, ed esistono, eccome. Solo che i riflettori in passato sono stati accesi – per mafia e antimafia – su Cosa nostra in Sicilia e Camorra a Napoli. In questa disattenzione distrazione su ndrangheta e antindrangheta aleggia il fantasma dello Stato storicamente occhiuto e non governante. Un problema vecchio che si può cogliere nel libro di Chirico nell’affermazione (riportata nel saggio) di un vescovo come Giovanni Ferro (un settentrionale dell’astigiano); un santo che già mezzo secolo fa “fotografava” la ndrangheta… “come frutto della decadenza dell’azione sociale e politica per cui trovano libero il passo quegli individui oscuri, che si uniscono a congiurare ai danni della società”. Rende giustizia Chirico alla Chiesa calabrese che nel campo antimafia ha avuto prese di posizioni severe, autorevoli che non possono essere macchiate da episodi spiccioli, locali che sconfinano nel folclore: inchini e roba varia, che pure ci sono stati. La storia del movimento antindrangheta nel libro di Chirico comincia con le dure battaglie per il lavoro, a volte macchiate del sangue di innocenti: ribellioni contadine, lotte per un giusto salario, denunce dei capibastone da parte di singoli, di movimenti e di forze politiche; prima che tutto si annacquasse in Calabria, formando quella melassa tossica che non consente più di distinguere tra una forza politica e l’altra. Nella storia raccontata da Danilo Chirico c’è Libera, con don Ciotti, ci sono gli studenti che manifestano a Rosarno, i sindaci in prima linea, il movimento “adesso ammazzateci tutti”, nato dopo l’assassinio del vicepresidente del Consiglio regionale Franco Fortugno, c’è “Reggio non tace”, ci sono preti come don Pino De Masi, magistrati che non fanno solo processi e inchieste ma salvano bambini dalle famiglie mafiose. Ci sono gli assassinii del mugnaio Rocco Gatto, di Valarioti, di Lo Sardo; prima ancora c’è nell’immediato dopo guerra la brutale uccisione di Giuditta Levato, una martire che voleva solo lavorare nei campi, com’era suo diritto. E’ un file rouge di “resistenti” che hanno denunciato, si sono ribellati e sono stati abbattuti in un mondo dove lo Stato che li doveva garantire era lontano. Che fare? Il libro si chiude con gli “appunti per un’antimafia popolare”: che significa partire da una buona sanità, dall’educazione, cioè la scuola; dall’immaginazione che significa spazio alla cultura. Ma per cambiare tutto ci vorrebbe lo Stato, e lo Stato non c’è, o almeno c’è quello che ha delegato tutto a magistrati, forze dell’ordine e commissari, questi ultimi deleteri, dannosi, pericolosi, quanto e come la pandemia.