Prof. Pierluigi Barrotta, Lei è autore del libro Storia del Partito liberale italiano nella Prima Repubblica edito da Rubbettino: quando e come nacque il Partito liberale italiano?
Il primo embrione del Partito liberale nacque subito dopo la caduta del fascismo, quando l’Italia era ancora divisa in due: liberata al Sud ed occupata dalle truppe nazifasciste al Nord. Segno evidente che il liberalismo aveva continuato ad essere presente nella società italiana anche sotto la dittatura. Sicuramente, Benedetto Croce ebbe un ruolo rilevante nella riorganizzazione dei liberali. Insieme al Croce filosofo e al Croce storico, bisognerebbe sottolineare anche l’importanza di un Croce forse meno noto: il Croce politico. Fu ad esempio Croce a far circolare tra gli ambienti antifascisti, già all’inizio del ’43, una prima bozza del programma che avrebbe dovuto caratterizzare il futuro Pli. Un programma tutt’altro che conservatore. Ad esempio, in esso si proponeva un piano vasto ed efficace di assicurazioni sociali, la necessità di una tassazione anche a carattere progressivo, la partecipazione ai profitti delle imprese (entro chiari limiti e garanzie) ed anche l’opportunità di statalizzare alcune industrie. L’azione e il pensiero di Croce furono certamente importanti, ma, ripeto, poterono essere efficaci solo perché si inserivano in una rete preesistente di ambienti liberali, che nel mio libro ho potuto spiegare e trattare solo marginalmente (il libro non si sofferma sull’opposizione dei liberali al fascismo). Qui è forse utile ricordare la vasta rete di giornali di ispirazione liberale che fiorirono con la caduta della dittatura, di cui Risorgimento liberale è rimasta la testata più nota, sia perché divenne l’organo del Pli sino alla chiusura del giornale (che avvenne dopo le disastrose, per i liberali, elezioni del ‘48), sia perché ne divenne direttore una personalità come Pannunzio, che avrebbe avuto un ruolo rilevante nella storia del Pli e dell’evoluzione culturale in Italia.
Quali erano i principi ispiratori del partito?
I liberali del Pli si presentarono come i continuatori dell’Italia risorgimentale e prefascista. Da subito si scontrarono con il Partito d’Azione, che riteneva invece necessaria una più radicale rigenerazione morale (famoso è l’intervento di Parri in cui egli affermò che i governi dell’Italia prefascista non dovevano essere considerati democratici, a cui rispose piccato lo stesso Croce). Non si trattava evidentemente di una discussione meramente storica, poiché si rifletteva sulla concreta azione politica; ad esempio sulle politiche di epurazione, che per i liberali dovevano riguardare solo le persone maggiormente coinvolte con il fascismo, senza che venissero inclusi funzionari di basso livello. Per i liberali era importate che con il passaggio all’Italia democratica non trovassero spazio decisioni arbitrarie o addirittura vendette personali. Se si tiene presente la condizione dell’Italia del dopoguerra era una richiesta ragionevole: era urgente che si lasciasse alle spalle il clima ereditato dalla guerra civile e ci si concentrasse sulla necessaria opera di ricostruzione amministrativa ed economica del paese.
I liberali, tuttavia, non si limitarono a riprendere la tradizione risorgimentale e prefascista, poiché la rielaborarono, anche considerevolmente, alla luce delle nuove condizioni dell’Italia. I liberali furono da subito consapevoli che erano ora una minoranza e che conseguentemente andavano ricercate delle alleanze. Da qui nacque la convinzione che dovesse essere superata l’ostilità risorgimentale tra liberali e cattolici, in nome degli ideali comuni che li contrapponevano sia alle forze “nichiliste” (il nazifascismo) sia a quelle “materialistiche” (il comunismo marxista). Fu ancora Croce, con il linguaggio di un filosofo di indubbio spessore, che propose questa alleanza con il saggio Perché non possiamo non dirci cristiani. Non era saggio di facile comprensione, anche perché l’immanentismo della filosofia di Croce non si conciliava facilmente con la fede cristiana. Tuttavia, anche alla luce della debolezza che aveva rivelato la Stato liberale, travolto dal fascismo, con quel saggio Croce stava chiaramente indicando quale strada avrebbero dovuto seguire i liberali dopo la caduta della dittatura (all’epoca in cui lo scrisse tutt’altro che certa). Croce ripose le sue speranze in quel cattolicesimo liberale in cui, come scrisse nella sua Storia d’Europa, «la sostanza era nell’aggettivo e la vittoria era riportata non dal cattolicesimo, ma dal liberalismo». Non era una speranza avventata, come avrebbe dimostrato l’opera politica di De Gasperi. Nel dopoguerra, liberali seguirono il suggerimento di Croce. Continuarono a sottolineare la laicità dello Stato e i pericoli delle derive integraliste, ma allo stesso tempo sottolinearono come non fossero nient’affatto ostili a collaborare con i movimenti cattolici impegnati politicamente.
Chi ne furono i maggiori esponenti?
All’epoca, i liberali disponevano di una classe politica di prim’ordine. Ovviamente, tra tutti per prestigio e storia personale primeggiavano Croce ed Einaudi. Fu Einaudi, ricordiamo, uno dei principali protagonisti che gettarono le basi del futuro “miracolo economico” (anche con misure impopolari sia tra i lavoratori sia tra gli imprenditori). Ma dobbiamo anche segnalare, con la certezza di dimenticare molti dei suoi esponenti, Manlio Brosio (che uscì tuttavia da partito dopo il primo congresso del dopoguerra, in polemica con la scelta filomonarchica presa dal partito. Brosio rientrò successivamente nel Pli), Epicarmo Corbino (persona con un carattere spigoloso, che non ebbe un rapporto facile con il PLi), Niccolò Carandini (uno degli esponenti di punta della sinistra liberale, che nel dopoguerra ebbe il delicato ruolo di Ambasciatore a Londra), Giovanni Cassandro (giurista, vicinissimo a Croce, che sarebbe stato eletto giudice della Corte costituzionale), senza dimenticare Aldo Bozzi, Guido Cortese e Gaetano Martino, che furono rappresentanti liberali alla Costituente.
Quale dibattito culturale animò al suo interno il Partito liberale?
Il dibattito culturale all’interno del Pli fu sempre intenso e nient’affatto superficiale. Nella quarta di copertina, come “strillo”, ho voluto che si scrivesse la frase: «La storia di un partito la cui forza delle idee superò la forza del suo consenso». Credo che sia una frase condivisibile anche da coloro che non hanno mai mostrato simpatia per il Partito liberale.
Con il secondo dopoguerra, si fronteggiarono due diverse concezioni del ruolo del Pli, che ovviamente riflettevano anche due diverse concezioni del liberalismo. Entrambe non mettevano in discussione l’opposizione ai partiti socialcomunisti e l’avversione alla cultura marxista (da Croce definita “materialistica”), ma questa opposizione venne declinata in modi diversi ed inconciliabili. Per la destra, si trattava di costituire un fronte anticomunista che doveva porsi in competizione con la Democrazia cristiana, giudicata infida e insicura nella lotta al comunismo. Nei progetti iniziali, assai ambiziosi, si sarebbe dovuto formare un grande partito liberale e conservatore che cercasse di svuotare la Dc. Seguendo questa idea, si immaginava che l’Italia si sarebbe potuta avvicinare ad un sistema almeno potenzialmente bipolare. Gli elettori anticomunisti dovevano essere educati al pensiero del liberalismo, senza dunque alcuna concessione alla nostalgia verso il fascismo. Per la sinistra, il Pli doveva invece farsi promotore di una “terza forza” insieme agli altri partiti laici, in modo da contrapporsi sia al Pci sia alle tentazioni integraliste della Democrazia cristiana. Con il tempo, vennero inclusi nel progetto di “terza forza” anche i socialisti, in modo da isolare ancora più marcatamente i comunisti che, ricordiamo, all’epoca era strettamente legati all’Unione sovietica. In termini di strategia, usando l’usuale “segnaletica” politica, per i primi il Pli doveva porsi a destra della Democrazia cristiana, per i secondi doveva invece porsi alla sua sinistra. Sovente gli esponenti della sinistra si rifacevano alla formula crociana del Pli come partito di “centro”: di centro perché doveva collocarsi tra la Dc e il Pci.
Come ho già detto, la discussione non riguardò soltanto la strategia politica, ma anche una diversa concezione del liberalismo. In particolare, la sinistra sviluppò una interessantissima riflessione critica del “capitalismo storico”, disapprovando la posizione dominante di alcuni gruppi industriali e soprattutto la commistione tra gli interessi di quest’ultimi e lo Stato. Si trattava di una rielaborazione, in senso radicale, del liberalismo di Einaudi e di Röpke. Entrambi avversi alla dottrina del laissez-faire, sia Einaudi che Röpke sottolineavano come il mercato si basasse su un sistema di regole di natura giuridica, istituzionale e morale. Grazie una attenta analisi storica, veniva sostenuto che non c’era ragione alcuna per pensare che tale sistema si evolvesse spontaneamente in modo tale da garantire una competizione equa ed aperta a tutti. Compito dello Stato era dunque attuare, come lo definì Einaudi, un interventismo “giuridico” contrapposto all’interventismo “amministrativo”, in cui lo Stato decideva cosa produrre, insieme al come e a chi dovesse produrlo. Il primo era un interventismo liberale, il secondo chiaramente non lo era. La sinistra liberale riprese questa idea, certamente radicalizzandola, e sviluppò conseguentemente una dura critica del capitalismo italiano. I liberali di sinistra non erano teneri con i grandi gruppi industriali e la loro tendenza a chiedere l’intervento dello Stato per proteggersi dalla concorrenza. A ben vedere, fu un aspetto che anche Gobetti riprese da Einaudi. Fu proprio perché disilluso da una borghesia sempre pronta a ripararsi sotto l’ombrello protettivo dello Stato, anche quello più autoritario, che Gobetti cercò una, certamente impossibile, alleanza con i consigli di fabbrica. Negli anni del dopoguerra, i liberali della sinistra coniarono anche un termine che sarebbe divenuto successivamente famoso e ampiamente utilizzato: “partitocrazia”. La critica ai partiti era per i liberali di sinistra solo il rovescio della medaglia della loro critica alle politiche filogovernative delle associazioni industriali.
È a mio parere importante notare che questa forma di liberalismo pressoché scomparve dal dibattito politico italiano dopo la scissione del 1955, in cui la sinistra liberale uscì dal Pli, e il successivo scioglimento del Partito radicale dei liberali e dei democratici italiani, fondato dai liberali della sinistra. Infatti, per tante buone ragioni che cerco di spiegare nel libro, né Valerio Zanone né Marco Pannella possono considerarsi eredi di quella tradizione.
In che modo il PLI partecipò ai governi della Prima Repubblica?
Il Pli partecipò attivamente alle coalizioni centriste del dopoguerra Nel congresso di Firenze, del 1953, il Pli di fatto accettò il punto di vista della sinistra liberale. Con Malagodi, tuttavia, la strategia cambiò radicalmente, anche se il cambiamento non fu subito evidente. Contrario all’ingresso dei socialisti al governo, con Malagodi cessò infatti di avere ogni funzione l’idea di una “terza forza” che si contrapponesse sia al Pci sia alla Democrazia cristiana. Per Malagodi la formula centrista era la formula più “avanzata” possibile in una società che volesse rimanere liberale, mentre per la sinistra liberale avrebbe dovuto essere solo un passaggio intermedio verso l’inclusione dei socialisti.
Dopo un successo che si sarebbe rivelato effimero, nelle elezioni del 1963, il Pli iniziò un lento ed inarrestabile declino. Le ragioni del declino sono molte e per la loro esposizione posso solo rimandare al mio libro. Certamente, non giovò l’isolamento in cui si trovò il Partito liberale. Impossibilitato per ragioni ideali a formare una grande destra insieme con i neofascisti del Msi, finita la stagione del dialogo con gli altri partiti laici, il Pli di Malagodi si trovò a cercare il dialogo con la sola Dc, e lo fece proprio in un momento in cui, con Fanfani, la Dc si stava preparando alla svolta del centrosinistra; formula da cui non sarebbe tornata più indietro, ad eccezione di un breve governo Andreotti, successivo alle elezioni del 1972, in cui peraltro i liberali persero voti sia alla Camera che al Senato.
Fu solo dopo la svolta impressa da Valerio Zanone, stiamo parlando del 1976, che il Pli riuscì a riaccreditarsi come partito di governo, cosa che infatti avvenne con il governo Spadolini, nel 1981. Fu un processo lento, ma inevitabile. L’immagine di un nuovo Pli non si era infatti certo spenta con la decisione dei liberali di opporsi al quarto governo Andreotti, che aveva visto per la prima volta i comunisti in maggioranza; primo passo, nelle loro intenzioni, verso l’ingresso nel governo. Si può al contrario ben dire che i liberali uscirono come vincitori morali di fronte al fallimento del compromesso storico.
La svolta di Zanone era assai opportuna e ad essa partecipò lo stesso Malagodi, che con Zanone alla fine raggiunse un accordo. Con Zanone, il Pli ebbe sicuramente più spazio di manovra, ma ciononostante non riuscì mai a decollare. Ci fu infatti un evidente problema di visibilità, in quanto Zanone condusse sì il Pli al governo, ma in un’area politica e culturale già molto affollata. Forse, un’alternativa sarebbe stata la ripresa del liberalismo radicale della vecchia sinistra, ma questa via non fu mai esplorata e sarebbe stata comunque assai difficile, dato che gran parte del personale politico dell’epoca non era preparato, anche culturalmente, ad una svolta del genere.
Quali politiche perseguì il PLI?
Il Partito liberale fu sempre geloso custode della tradizione laica risorgimentale. Ad esempio, in quasi totale solitudine non volle votare a favore del nuovo Concordato firmato da Craxi nel 1984. Anche con la segreteria Malagodi, le ragioni del laicismo alla fine prevalsero. Grazie all’opera di Antonio Baslini, il Pli di Malagodi si schierò risolutamente per il divorzio, nonostante le molte perplessità iniziali dovute alla paura di un progressivo slittamento a sinistra del paese.
In economia, il partito si schierò in difesa del mercato e della libertà di impresa, che tuttavia venne declinata da subito in modi diversi e difficilmente conciliabili. Carandini guardava con simpatia al piano Beveridge e all’economia keynesiana. Corbino era invece estimatore di Say e del laissez-faire. Infine Einaudi, e come abbiamo visto parte importante della sinistra liberale, erano favorevoli ad una ulteriore e diversa prospettiva, contraria sia al laissez-faire che all’interventismo keynesiano.
Per avvicinarsi ai giorni nostri, sul piano dei diritti civili il Pli fu in linea di principio assai aperto alle proposte del Partito radicale, anche se rimase sempre estremamente cauto al riguardo, probabilmente perché timoroso di perdere parte del proprio elettorato tradizionale. Lo stesso credo che si debba dire per la difesa dell’ambiente, nonostante la diffusa sensibilità per l’argomento all’interno del partito, testimoniata dall’attività svolta da Biondi e poi da De Lorenzo nei ruoli, rispettivamente, di Ministro con delega all’ecologia e di Ministro dell’ambiente.
Quali vicende condussero al suo scioglimento, nel 1994?
Le vicende che condussero il Pli a sciogliersi sono le stesse che condussero alla fine della Prima repubblica. Nel libro ne parlo diffusamente, anche se ovviamente l’analisi della fine della Prima repubblica meriterebbe una discussione a parte. Qui si può aggiungere una certa sottovalutazione della gravità della situazione da parte del Segretario del Pli di allora, Renato Altissimo. Questi rimase nei fatti vicino a Craxi e al Psi, cosa che certamente non giovò in un momento in cui Craxi era visto come il simbolo di un sistema dei partiti oramai irrimediabilmente ammalato. Alcuni dirigenti, come Biondi e Patuelli, cercarono altre strade, più “movimentiste”, avvicinandosi ai movimenti referendari, ma ciò non evitò la scomparsa del Pli.
Qual è l’eredità del Partito liberale italiano?
La storia del Pli nasconde un paradosso. Il Pli scomparve dopo la caduta del muro di Berlino, quando i valori fondamentali del liberalismo cominciarono ad essere diffusamente accettati. Negli anni Settanta non era facile dirsi liberali in Italia. Come giovane studente liceale, prima, e universitario, dopo, lo posso ben testimoniare. Negli anni Novanta, al contrario, a volte sembrava che dirsi liberale non indicasse più qualcosa di particolarmente significativo, per la semplice ragione che la vastissima maggioranza delle persone si definiva liberale. Sta di fatto che l’eredità del Pli è tutt’oggi controversa. Alcuni continuano a considerarlo un partito conservatore, piegato alla difesa di interessi di classe, altri sono assai più generosi nei loro giudizi. Personalmente, ritengo che la sua importanza storica risiede nel fatto che fu palestra di profonde discussioni culturali e politiche. Anche coloro che ne uscirono polemicamente (e furono in molti), dovrebbero riconoscere il ruolo di luogo di discussione “alta” che il Pli seppe svolgere.
Altre Rassegne
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Intervista a Pierluigi Barrotta sul suo libro “Storia del Partito Liberale Italiano nella Prima Repubblica” (Rubbettino)
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“Storia del Partito liberale italiano” (intervista al prof. Pierluigi Barrotta)