Croce non fu né succubo del regime né suo oppositore accanito. Morì come padre della Patria senza essere presidente: il saggio di Di Rienzo.
«Don Benedetto vien dalla Campania », scriveva ormai molti anni or sono il giovane enfant terrible Umberto Eco in quella sua Storia della filosofia in versi che divenne la mitica icona dissacrante degli studenti universitari di materie umanistiche fra anni Cinquanta e anni Sessanta. E si poteva anche ammettere, all’epoca, che fosse stato «dolorosamente etico» l’assassinio di Giovanni Gentile, ma non si ammetteva a cuor leggero che si potesse scherzare su quel monumento umano ch’era il filosofo di Pescasseroli, il fondatore della ‘religione della Libertà’, colui che aveva assolto una volta per tutte il Risorgimento e l’Italietta dal sospetto di essersi covati in seno la serpe della dittatura affermando al contrario che il fascismo era per il nostro paese quello che «la calata degli Hyksos» era stata per l’antico Egitto, l’inaspettata e immeritata invasione di un corpo estraneo.
Erano in tanti, allora, a rimpiangere che Croce se ne fosse andato ottantaseienne, nel 1952, senza riuscir a ottenere quella carica di presidente della Repubblica che molti auspicavano per lui, anche se mai egli aveva rinunziato alla sua ferma fede monarchica. Ma sul suo duro e intransigente antifascismo quasi nessuno osava eccepire. Salvo magari qualche comunista che non gli sapeva perdonare quell’epiteto di ‘bolscevismo rosso’ ch’egli aveva rivolto al comunismo, affratellandolo così al fascismo definito come ‘bolscevismo nero’. Oggi, in tempi di rinnovata polemica avviata dal ‘Manifesto di Sant’Anna di Stazzema’, questa equipollenza di fascismo e di comunismo piacerà molto a certuni e spiacerà molto a cert’altri: e sarà così sempre, finché non s’imparerà a considerare il pur contraddittorio fenomeno totalitario come l’esito obbligato, fra secondo e terzo decennio del secolo scorso, di quel liberismo che aveva fallito sul piano della soluzione del problema della società di massa per quanto fosse uscito vincitore dal banco di prova della Prima guerra mondale.
Eppure qualche amarezza il Croce presidente del partito liberale l’aveva pur avuta, in quei per lui ‘difficili anni’ fra ’43 e ’48 ai quali Eugenio di Rienzo he dedicato nel 2019 Benedetto Croce. Gli anni dello scontento. 1943-1948 (Rubbettino), recensendo il quale molti si erano tuttavia chiesti come mai il suo autore avesse potuto non sentire il bisogno di chiarire il suo assunto affrontando il quarto di secolo precedente, senza il quale quel periodo ‘dello scontento’ sarebbe rimasto non del tutto compreso ed esposto. E difatti, puntuale, Eugenio di Rienzo ha raccolto la sfida che peraltro egli aveva già lanciato forse fin dal principio a se stesso prima che altri glielo chiedesse. Ecco la risposta: ne Gli anni del fascismo (ubbettino, pagina 214, euro 18) don Benedetto ebbe modo di meditare a lungo – come ebbe a scrivere egli stesso nel 1950 sull’abbaglio che lo aveva condotto a considerare «a dire il vero, poco accortamente, un episodio del dopoguerra», mentr’esso al contrario aveva gettato nella società italiana radici che gli avevano permesso di dominare nel generale consenso almeno finché, dopo l’abbraccio mortale con la Germania di Hitler e l’entrata in guerra, la popolarità del Duce non aveva cominciato a sfaldarsi fino a precipitare nella finale tragedia.
Un Croce quindi, che sulle prime aveva confidato che il fascismo finisse con lo sfociare nel grande fiume del liberalismo conservatore erede di Silvio Spaventa ch’egli non meno del suo fratello-coltello Giovanni Gentile auspicava e che aveva polemizzato con questo con Giustino Fortunato, anche se forse non aveva davvero meritato addirittura l’epiteto di «fascista senza la camicia nera» che Gentile gli aveva scagliato contro nel ’25, al tempo dei due contrapposti «manifesti degli intellettuali». Non fu quindi certo facile la vita di Croce e della sua rivista, ‘La Critica’, sotto il regime. Pure qualche incertezza, qualche ambiguità, qualche accomodamento certo vi furono, come al tempo della guerra d’Etiopia e delle sanzioni. Antifascista certo, controllato dall’OVRA e fatto pedinare dalla polizia, ma pur ben accetto negli ambienti di corte, non antipatico – tutt’altro – alla destra conservatrice e filomonarchica del PNF (ch’era potente), padrepadrone delle umane lettere ben più di quel Gentile che rimaneva peraltro tanto al di sopra di lui sul piano della critica tanto letteraria quanto filosofica.
Un ‘esule in patria’, forse, ma comodamente assiso in senato e oggetto pertanto degli strali degli altri, gli esuli per davvero, che peraltro a loro volta spettacolo edificante sempre non dettero. Per questo nel successivo lustro ‘dello scontento’, il ’43-’48, avrebbe dovuto affrontare l’ostilità sia dei veteroantifascisti che gli rimproveravano ambiguità e cedimenti, sia degli ex-fascisti neoantifascisti ch’erano suoi inveterati avversari. A rendere più articolato e complesso il quadro giova forse ricorrere alla distinzione tra ‘fascisti’ e ‘fascistizzati’ nel periodo successivo al 1924, sulla quale ha insistito Giuseppe Parlato nel suo importante studio sulla ‘sinistra’ fascista. E forse furono proprio le ‘fronde’ fasciste le più decise e accanite nemiche del senatore: a partire dal «fascista nazional-bolscevico» Delio Cantimori. Un libro denso, complesso, alieno da schematismi manichei: che tuttavia rende onore al Croce nobilmente e apertamente schierato senza riserve contro la virata razzista e antisemita del fascismo. Lui, laicista e che pur rimproverava agli ebrei l’’ostinato’ rifiuto di assimilarsi rispetto al cristianesimo laicizzato e ateizzante dell’establishment borghese, ma che pur scriveva che avrebbe disonorato il suo stesso cognome se non si fosse schierato con i perseguitati.
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