L’Italia sull’orlo della guerra civile dopo l’attentato a Togliatti, il ruolo del Partito comunista per rovesciare la democrazia. Seconda parte dell’intervista a Salvatore Sechi
Professore, lei e Giuseppe Pardini siete arrivati ad un’altra conclusione che riguarda l’esistenza di un apparato para-militare del Pci.
Direi che gli elementi probatori raccolti da Giuseppe Pardini sono impressionanti e confermano quanto nei miei precedenti lavori (ad esempio Compagno cittadino. Il Pci tra via parlamentare e lotta amata, Rubbettino 2006, ndr) avevo intuito e in parte documentato. Mi riferisco alla ricchezza di fonti come quella dello Stato maggiore della Difesa e del nostro controspionaggio, di cui Pardini ha potuto fruire e che ha saputo utilizzare con molta maestria.
Nel Pci chi si occupava dell’apparato para-militare?
Non era una sezione di lavoro con un responsabile. Il comandante delle formazioni militari comuniste è stato, pare, il generale Alfredo Azzi. Come ricorda Pardini, è lui che il 13 luglio presenta alla sezione Italia del Cominform il documento Piani di difesa e di offesa.
Il 13 luglio vuol dire il giorno prima che Pallante sparasse a Togliatti. E il destinatario fu Gheorgiu Dimitrov, cioè il dirigente bulgaro insediato da Stalin alla testa del Cominform?
Sì, proprio il segretario del Cominfirm che, sulla base di una denuncia presentata dalla famiglia Gramsci, segnò l’uscita di Togliatti dalla segreteria del Comintern e il suo “esilio” nella Repubblica sovietica della Baschiria, a ridosso degli Urali. Dimitrov è un esecutore fedele delle preoccupazioni di Mosca. Ordina “alla Direzione del Pci di evitare azioni di forza, pur lasciando ampia libertà di azione in materia di scioperi”. In altre parole Mosca non vuole che nel Mediterraneo si ripeta una seconda Grecia. Come disse a Secchia nell’incontro del dicembre 1947, punta ad arginare l’area del contenzioso con gli Stati Uniti e i principali paesi europei.
Per il braccio armato del Pci si è sempre fatto il nome di Luigi Longo e soprattutto di Pietro Secchia.
Durante la Resistenza erano stati comandanti partigiani ed ebbero un’attenzione e un interesse per l’organizzazione militare del partito che invece Togliatti non aveva.
Tra gli storici è stato Paolo Spriano a valorizzare l’importanza del bracco armato del Pci.
E’ vero, ma non ha dedicato neanche un articolo all’argomento. Gli altri storici comunisti hanno glissato o sono stati generici (come Silvio Pons). Eppure una delle prerogative richieste fin dal 1917 per essere accolti come membri del Comintern e poi del Cominform fu proprio la struttura dotata di capacità di offesa e di autodifesa.
Può ricordare qualche episodio relativo a Secchia?
Fu proprio lui, che era vicesegretario del partito (nel periodo della degenza in ospedale di Togliatti lo sostituì alla testa del partito) su l’Unità ad esaminare città per città quali erano state le reazioni all’attentato. Si tratta di una vera e propria rassegna sull’efficienza e i limiti dell’esercito rosso.
Qual era la consistenza di questo apparato?
Dipartimento di Stato e Cia parlano di circa 200-300mila uomini, con un armamento non uniforme e non sempre aggiornato. Ma il corpo attivo era di circa 25-30mila unità distribuito soprattutto nel Modenese, in Romagna e nei grandi centri industriali del Nord dove maggiore era la concentrazione del proletariato di fabbrica. La preoccupazione del Dipartimento di Stato e della Cia era grande, come ho segnalato nei miei lavoro precedenti. La struttura militare del Pci era in grado di spaccare l’Italia, tenerla divisa per qualche mese, tenere in scacco il governo. E se jugoslavi e sovietici fossero intervenuti il rischio era di una terza guerra mondiale. Dunque, un’apocalisse.
Quante province furono investite da azioni insurrezionali o para-insurrezionali comuniste nei giorni, se non nelle ore, successivi all’attentato?
Secondo i dati desumibili da fonti militari (alle quali di recente Pardini ha potuto accedere) le reazioni aggressive nei confronti della polizia e delle autorità militare dopo l’attentato del 14 luglio si ebbero in 12 province. Al Nord Genova, Milano, Torino, Piacenza, Varese e Venezia. Al centro Forlì, Rovigo e Siena. Nel Sud Napoli e Taranto.
Quante furono le vittime degli scontri?
Riprendo le cifre dal bilancio ufficiale presentato dal ministro Scelba (ma le versioni furono diverse) al termine dello sciopero generale: 9 morti e 120 feriti tra le forze di polizia; 7 morti e 86 feriti tra i cittadini. Gli arrestati furono migliaia. L’apparato militare comunista in diverse città non solo fronteggiò le unità di polizia e dell’esercito, ma le disarmò e le tenne in ostaggio. Furono attaccate e devastate molte sedi della Dc e dei partiti di governo. L’elenco è ampio: Roma, Viterbo, Udine, Forlì, Reggio Emilia, Ferrara, La Spezia, Pistoia, Savona, Cesena, Venezia, Varese, Civitavecchia, Padova e Perugia. Si verificarono blocchi del traffico e scioperi diffusi. Nelle manifestazioni avutesi nel Sud siamo sul piano prevalentemente della protesta. Non si ebbero attacchi ai poteri istituzionali. Ma nei grandi centri industriali la musica fu un’altra.
Quale?
Scontri diretti e assalti alle caserme dei carabinieri e della guardia di finanza (come a Busto Arsizio e a Piombino), assalti alle carceri (per liberare i partigiani detenuti), blocchi stradali, interruzione dei binari ferroviari (a Foligno, Fidenza, Massarosa), presidi del territorio e posti di blocco nelle principali vie d’accesso, e altro ancora.
Lei intende dire che quanto accadde a Torino, Milano, Venezia, Genova ecc. rivelò una cura e una programmazione specifiche, di lunga durata? Aveva dunque ragione Pietro Ingrao a intitolare la prima pagina de l’Unità, di cui era direttore, “Via il governo della guerra civile”?
Dissento completamente. Quello di Ingrao, di Secchia e di Longo fu un plateale tentativo di attribuire a De Gasperi e a Scelba una responsabilità nell’attentato a Togliatti. Era semplicemente una forzatura, una invenzione pericolosa. Molto più cauto fu l’atteggiamento di Di Vittorio, Ruggero Grieco e di altri dirigenti di limitarsi allo sciopero generale e porre un argine alla linea di radicalizzazione dello scontro in atto.
Che cosa leggere per capire i termini del dibattito interno al Pci?
Secondo me risultano puntuali le analisi che vengono fatte dagli alti comandi della polizia, dei carabinieri e dell’esercito come del controspionaggio. Da Mitifrisco a funzionari come Vincenzo Ciotola, Giuseppe Massaioli, Arnaldo Valentini, Luigi Efisio Marras ecc. La ricostruzione che si può leggere nel saggio Prove tecniche di rivoluzione è da questo punto di vista minuziosa e fondata su fonti diverse, cioè è un lavoro storiograficamente incontrovertibile.
L’apparato militare sceso in capo nei giorni del 14-16 luglio puntò solo a difendersi da un eventuale “colpo di stato della borghesia”?
Questo fu il pretesto inscenato. In realtà si volle costruire un’alternativa ad essa, cioè dare vita allo schema di un vero e proprio potere operaio. Furono prove di una rivoluzione possibile. Ci fu l’occupazione delle fabbriche. Clamorosa quella della Fiat a Torino.
Sia più preciso, se possibile.
Vittorio Valletta fu tenuto per diversi giorni ristretto nell’ufficio che occupava alla Fiat. Fu trattato con ogni possibile riguardo anche per il contributo che durante la guerra di liberazione e successivamente aveva dato ai dirigenti comunisti. Ma comunque fu fatto prigioniero dai suoi operai. La testimonianza migliore è quella fornita al Dipartimento di Stato dal console degli Stati Uniti a Torino.
Rispetto alla sconfitta elettorale del 18 aprile che cosa rappresentò l’attentato a Togliatti?
La classe operaia più avanzata, ma anche le masse popolari, fecero valere alcuni principi che elenco. In primo luogo che per sconfiggere il fascismo andavano recise le basi economiche dello sfruttamento e del lavoro salariato. In secondo luogo che i voti si contano, ma anche si pesano. In terzo luogo che l’odio e gli strumenti della violenza non sono rubricabili come nel vecchio Stato di diritto prefascista, cioè come una prerogativa dello Stato. L’esistenza dell'”esercito rosso” poneva, dunque, un’ipoteca sul monopolio statale della violenza legittima.
Come fece il Pci a superare queste ambasce e contraddizioni?
Nei decenni successivi, si lasciò trascinare in una politica di parlamentarizzazione infinita. Sia del partito, sia della lotta di classe sia dei conflitti sociali. Di comunista non sarebbe sopravvissuto molto, se non una retorica e una leggenda che stendeva elegia e poesia su una prosa che incorporava una vera e propria débacle.
Ma la Dc e i partiti suoi alleati disponevano anch’essi di strutture para-militari?
In una certa misura. Lo ha documentato il giudice di Venezia Carlo Mastelloni. Ma di fronte alle manifestazioni violente inscenate dai comunisti, i corpi militari dei partiti di governo finirono per rivolgersi alla polizia e all’esercito. Di qui la valutazione negativa che essi trassero di questi organi. Capirono che non potevano fare alcun affidamento. D’Altro canto non si poteva cavalcare l’alternativa di mettere fuori legge il Pci. In un regime di democrazia liberale l’opposizione è un valore, non si può farne strame con misure legislative di contenimento forzoso.
Si può dire che il Pci sia stato l’iniziatore della spartizione (e della corruzione) delle risorse pubbliche?
Sì. Basta pensare al grande affaire dell’Ingic (l’Istituto nazionale per la gestione delle imposte comunali) nel 1954. Fu un grande scandalo di peculato e corruzione che coinvolse amministratori di tutti partiti, parlamentari, funzionari ecc. per un reato che anticipava quello del finanziamento pubblico ai partiti. Un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio approfitta della propria posizione per un fine o una utilità propria (come la “sovvenzione” ai partiti che, mettendosi preventivamente d’accordo, dovevano decidere a quale società affidare la riscossione delle imposte locali). Ebbe 1183 imputati, ma alla fine si risolse in un nulla di fatto, una sorta di amnistia generalizzata. Il Pci fu in prima linea nel difendere l’amnistia e la non colpevolezza di chi attraverso pressioni e scambi aveva introdotto la corruzione nella scelta delle imprese abilitate alla riscossione dei proventi fiscali nelle amministrazioni comunali. La partitocrazia è nata con la guerra di liberazione, quando Pci, Dc, Psi ecc. si assegnavano, in base a calcoli di proporzionalità politiche e successivamente elettorali, le presidenze degli enti comunali (per l’energia elettrica, per l’acqua, le centrali del latte, i mattatoi, le fiere, il controllo dei consumi). Dall’emergenza si è passati a farne una regola, un principio politico. Tutto questo in nome della retorica dell’antifascismo non lo si dice. Sull’Ingic ad alzare la voce fu l’ex comandante delle prime formazioni partigiane in Piemonte e inviato speciale de l’Unità, Luigi Cavallo, un diventato un irriducibile anti-comunista.
Sono valutazioni le sue, professore, alle quali la storiografia comunista e in generale di sinistra non mi pare si sia spinta.
Guardi, non creda a chi dice che nel paese esistono zone non infettate. Anche nell’università, nella nomina dei docenti, ha prevalso un dovere di solidarietà politica, e non di ricerca della competenza, del merito o verità storica.
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