Ho sempre odiato l’autobiografismo ‘spinto’ dei giornalisti. Quelli che quando raccontano una partita di calcio spostano il baricentro dell’attenzione e del racconto dal campo da gioco alla tribuna stampa, come per conquistarsi un pezzettino di notorietà, uno spicchio presuntuoso e non richiesto di riflettore.
Un’ansia da prestazione e di protagonismo che mi ha sempre inquietato: ho sempre disdegnato, infatti, i racconti in cui il cronista, per me poco più che un pezzo di arredamento in una stanza, indulge su sé stesso come epicentro della tensione rispetto a quanto accade tra i veri protagonisti. Ho sempre concepito la professione di giornalista come un mestiere basato sulla comunicazione migliore possibile e su una certa dose di casualità: sono io lì in quel momento e devo raccontare al meglio possibile. Avrebbe potuto esserci qualcun altro e la storia sarebbe stata sempre la stessa, ma la sfida impossibile, con quello o quella collega senza identità, è che io avrei dovuto scriverla in maniera perfetta. Anche se ovviamente la perfezione non è di questo mondo e nemmeno di quello dei giornalisti, nonostante in molti siano convinti del contrario.
Solo in pochi in Italia possono dire di avere fatto la differenza e di essersi conquistati a ben diritto quello spazio narrativo oltre che esistenziale nel tempo: tra loro, ovviamente, Oriana Fallaci, Indro Montanelli, Enzo Biagi e – nel mio campo, quello legato all’entertainment – Tullio Kezich, Callisto Cosulich, Vincenzo Mollica…
Nomi “ovvi” cui resta difficile associarsi almeno fino a quando si è in vita. Poi, dopo, ammesso che abbia ancora senso, il più tardi possibile, sarà qualcun altro a tirare le somme del tuo lavoro.
Tendenzialmente non amo parlare della mia biografia e – per una volta, forse, la prima, ma anche verosimilmente l’ultima– decido di farlo, anche per rispondere all’interessamento di Stefano Fresi, il bravo e talentuoso attore, che una volta accennò a questa storia che sto per raccontare con fare quasi ‘mitico’ e che non sapeva essere stato io a generarla, ventisei anni fa, nel 1994, in maniera del tutto inaspettata.
Una vicenda che mi è stata riportata alla mente da Sordi Segreto, il libro di Igor Righetti dedicato ad Alberto Sordi nei cento anni della nascita, edito da Rubbettino, pagg.248 in uscita in questi giorni dove viene citata.
All’epoca avevo una serie di collaborazioni con riviste di cui curavo lo spazio legato al cinema.
In quegli anni mi misi in testa di intervistare tutti i grandi attori della commedia all’Italiana. Ugo Tognazzi, purtroppo, era morto nel 1990, ma intendevo dedicarmi ad una serie di grandi nomi inclusi Mastroianni e Gassman che incontrai da lì a poco.
Iniziai da Nino Manfredi, per una rivista di nome Tuttoscuola, un mensile, di prestigio in ambito scolastico, e la serie di interviste riguardava lo studio e il talento. Colsi l’occasione dell’uscita del libro di Nino Manfredi Nudo d’attore e abbastanza rapidamente fui invitato a casa sua all’Aventino dove trascorsi un paio d’ore a parlare e lui fu generosissimo nel raccontarsi. L’intervista era molto più lunga dello spazio che avevo e così decisi di proporne il pezzo di maggiore attualità alla redazione di uno dei primi free press di quartiere.
In quell’intervista, parlando dei suoi colleghi Manfredi fece una serie di considerazioni importanti: “Quando io vado a sentire recitare Vittorio Gassman, rimango sempre incantato perché fa venire i brividi. E credo che ce ne siano pochissimi altri come lui: Ruggero Ruggeri, Turi Ferro, Salvo Randone… ecco di fronte a Randone io potevo solo inginocchiarmi, e come dinanzi a lui potevo inginocchiarmi di fronte a Totò, Peppino De Filippo ed Eduardo, che è stato il primo a credere in me quando io ero ancora in accademia e che addirittura una volta mi disse “Tu parli un napoletano più bello del mio, perché è un napoletano d’amore”. E se questo è accaduto io lo devo solo all’Accademia.” Insistendo sul tema del rapporto tra gli attori e il cinema italiano, Manfredi aggiungeva “Il talento è come se tu metti uno Stradivari in mano ad un ignorante, questo non può fare altro che grattarlo. Se lo dai in mano ad uno che ha studiato, questo ne tira fuori delle cose straordinarie. Ma a te, te pare logico che in Italia si parla sempre degli stessi nomi: Sordi, Manfredi, Gassman, Tognazzi e pochi altri e da queste cavolo di scuole non viene fuori nessuno? Il vero motivo della crisi del cinema italiano è che non ci sono più bravi attori e chi ha successo lo deve a film incomprensibili “pompati” da critici, che non sanno fare il loro mestiere, che vanno a vedere la proiezione in una saletta tutta per loro e magari hanno litigato co’a moje oppure hanno mangiato male, che manco vedono il film, parlano tra loro o s’addormono eppoi scrivono fiumi e fiumi di parole.”
Un’analisi dolorosamente lucida di quegli anni dove il cinema di Stato – non senza eccezioni importanti – aveva fatto molti danni, togliendo ai produttori e al mercato la centralità dell’entertainment. Arrivò, poi, ineluttabile, la domanda su uno dei più grandi attori della storia del cinema italiano, Alberto Sordi che l’Accademia o il Centro Sperimentale non li aveva frequentati e Manfredi non si tirò indietro: “Alberto Sordi è un attore che ha un talento dieci volte più grande del mio.” Riconobbe “E’ un talento naturale che, però, non ha educato. Sordi non può fare altro che se stesso, non ha mai fatto altro in vita sua ed è per questo che oggi è finito! Io quando facevo Ponzio Pilato cercavo di “essere” Ponzio Pilato, ma Sordi chi cerca di essere quando recita? Lui rimane sempre se stesso e non è assolutamente vero che la sua è la “storia di un italiano”, al massimo è la storia di un romano e non è che io lo dica solo oggi. E’da mo’ che me so’accorto di questa cosa: quando giravamo nel ’68 in Angola, “Riusciranno i nostri eroi…” glielo ho detto pure a lui. Gli ho detto: “Senti Albè, ma perché non te prepari?”. Non mi capiva, e da allora non ha più voluto lavorare con me, se non i film dove manco ci incontravamo e pensa che prima, noi abbiamo vissuto tanto assieme. Qualche anno fa c’avevano proposto di girare un “Giulietta e Romeo” ambientato al giorno d’oggi nella periferia di Roma dove io e lui facevamo le parti di Capuleti e Montecchi sai che ha risposto? “Se c’è Manfredi, non lo faccio.” La scuola che abbiamo fatto noi, non l’ha fatta nessuno e si sente che Sordi non ha nessuna scuola e che viene dalla strada. Va benissimo! Ma c’hai il soffitto basso e prima o poi ti fermi, come gli è successo a lui. Secondo me lui non ha letto Stanislawski e non sa manco chi è Cechov…Sordi è un personaggio, io sono un attore, perché faccio tanti personaggi.”
Parole forti, animate da un certo sguardo e da una logica. E’ vero Sordi indossava una maschera, ma – al tempo stesso – era molto amato dal pubblico, perché degli Italiani era la cattiva coscienza e per alcuni, forse, anche il modello…
L’intervista uscì e qualche tempo dopo, per la prima volta, ebbi modo di incontrare anche Alberto Sordi per la presentazione del suo penultimo film da regista, Nestore – l’ultima corsa. Sospeso tra un’allegria agrodolce ed un amarezza senza fine, il film racconta la storia di un anziano vetturino, che si rifiuta di portare al mattatoio il cavallo con cui ha diviso gli ultimi anni di lavoro. Tra mille peripezie, aiutato solo da un nipotino, il vetturino Gaetano farà il viaggio di una giornata tra le mura di una Roma allucinante, abitata da nevrotici che non riusciranno comunque a capire le ansie dell’uomo, che vedrà, in un drammatico finale, finire il cavallo al mattatoio e lui stesso all’ospizio. Una “favola neorealistica”dei nostri giorni, che Sordi definiva un aperto omaggio a Federico Fellini, scomparso pochi mesi prima. Dopo la conferenza stampa, ebbi modo di passare un quarto d’ora con Alberto Sordi e fui colpito dalla sua sincerità nel parlare di sé stesso: “E’ mezzo secolo che faccio l’attore. Nessuno mi ha indicato questa strada, sono nato con la voglia di esibirmi. Ho fatto un lunghissimo tirocinio e l’avvento del neorealismo mi ha portato ad esprimermi come fa la gente ed il cinematografo mi ha utilizzato così. Nella mia carriera ho proposto dei personaggi che ben conoscevo e sono andato sempre al passo con la mia età. Ho fatto la parte del figlio, del fidanzato, del marito, poi del padre ed ora faccio la parte di un nonno.” Il tema centrale del film gli stava particolarmente a cuore “Se si tornasse a vivere una vita un po’più quieta e un po’più riflessiva, dando unicamente il proprio contributo alla società, senza badare a tante sciocchezze, le cose andrebbero molto meglio. Questi sistemi di vita che portando a caos, traffico, rumore, a muri devastati non vanno di certo bene. I giovani che hanno interpretato la libertà come un modo di vivere dove uno si può levare ogni soddisfazione non hanno capito niente. Forse bisogna ridimensionare tutto, perché altrimenti si va incontro al giudizio universale ed alla distruzione totale. Se per fare questo bisognerà sentire il pericolo imminente io non lo so, speriamo che l’umanità capisca fermandosi prima…” Come ultima domanda, ovviamente, gli raccontai dell’intervista a Manfredi, chiedendo un suo commento che arrivò sintetico e lapidario: “Vede, io sono anziano e Manfredi è un mio coetaneo. Soffro di certi doloretti, e sa, sono cose che possono accadere ad una certa età, perché alla nostra età o ti prende alle gambe oppure alla testa. A Nino, evidentemente, non lo ha preso alle gambe…”
Quando anche questa intervista fu pubblicata, La Stampa di Torino ne fece un piccolo, ‘minuscolo’ caso incentrato sull’idea dei ‘Ragazzi Irresistibili” di Neil Simon in cui dei vecchi amici e colleghi, hanno delle schermaglie un po’ avvelenate, ma sempre civili e – perfino – divertenti.
Quando uscì il pezzo de La Stampa, ricevetti una telefonata da uno degli assistenti dello storico ufficio stampa di Alberto Sordi che oltre a lamentarsi di me e a proferire le solite minacce del caso (non ti inviteremo più a vedere i nostri film, né alle conferenze stampa, etc. etc.) mi annunciò l’intenzione di Alberto Sordi di querelare me e il giornale perché lui non aveva mai detto quelle parole. Ho sempre avuto una brutta calligrafia e, forse, se fossi nato nel Duemila e non nel 1970 mi avrebbero diagnosticato la disgrafia, mentre all’epoca, dalle suore, mi dicevano solo che scrivevo male e non mi impegnavo abbastanza a correggere la scrittura tenendo male la penna. Per questo motivo, da quando per nel Natale del 1984 mi fu regalato il primo walkman, ho sempre avuto in tasca un registratore con le pile di riserva in un astuccio a parte. Non mi fido di me stesso ed è sempre stato un bene (lo fu anche in seguito, ma questa è un’altra storia…) e quindi spiegai all’interlocutore che io avevo registrato tutto. Mi fu ribattuto che il Maestro Sordi, qualora avesse proferito quella frase (peraltro anche molto buffa e divertente…) lo aveva fatto con tanto amore e non con la cattiveria che gli “avevo attribuito”. Con dolore, di dovere rispondere così per interposta persona ad uno dei miei miti di tutta la gioventù, con quella dose di infidia necessaria se vuoi provare a dire a te stesso di essere un bravo giornalista, dissi “Mi scuso se ho travisato lo spirito delle parole del Maestro, ma ho riportato esattamente quanto lui ha detto parola per parola: sarà il magistrato, nel caso, a stabilire il grado di affetto messo da Sordi nelle sue parole.” Avevo registrato tutto, cosa non molto frequente, in quegli anni. Manfredi mi aveva addirittura aiutato a fare ripartire il registratore che si era inceppato. La cosa, ovviamente, si chiuse lì, perché era solo una piccola schermaglia, collaterale ad una più ampia riflessione sul cinema e sulla carriera di entrambi.
Non sfugge l’ironia del fatto che la mia professione, da sempre improntata almeno nelle sue ambizioni, alla serietà, all’Understatement, alla discrezione, sia iniziata con un mini rissa come questa, ma ho imparato molte cose in quel frangente e, da allora, anche se il registratore è incorporato nel telefono, non ho mai fatto un’intervista senza registrarla in audio o in video.
Ancora oggi conservo quelle interviste e non per paura di azioni legali o querele che, francamente, anche allora, pur non essendo un avvocato, avrebbero lasciato il tempo che trovavano, ma per riascoltare la mia voce insieme a quella dei due grandi attori che io, come tanti, abbiamo amato.
Mi dispiace leggere nel libro Sordi Segreto che quella sarebbe stata la fine dell’amicizia tra Sordi e Manfredi. Anche perché – come ha ricordato l’ufficio stampa Paola Comin in una bellissima lettera al Corriere ho scoperto che Sordi malato, partecipò alla proiezione della versione restaurata di ‘C’eravamo tanto amati’ e quindi quel piccolo bisticcio via giornali fu veramente dimenticato in un battere di ciglio.
Era evidente che nessuno di loro se ne ebbe particolarmente a male anche se – comunque – doveva essere difficile per entrambi convivere con lo status di Mostri Sacri e con il tempo che passava. Di lì a dieci anni, purtropo, entambi se ne sarebbero andati, lasciandoci deprivati della loro simpatia, del loro talento e della loro grande e profonda umanità.
Eppure loro restano nella Storia del Cinema tra i più grandi di tutti e questa scemenza, questo vezzo di battibeccare come dei veri Ragazzi irresistibili, me li rende ancora più umani e simpatici. Soprattutto in un’era come la nostra drogata dal politicamente corretto e dove la gente del cinema, anziché litigare, preferisce, in genere, ignorarsi, questa buffa e ragionata schermaglia, anziché un litigio, andrebbe ricordato come una lezione di due grandi attori e artisti, pronti a discutere per difendere ancora una volta la loro arte. Comunque cosa di poco conto rispetto ad i grandi scontri come quello tra Bette Davis e Joan Crawford o tra Christopher Lee e Malcolm McDowell.
Il loro abbraccio che illustra quella sera del loro nuovo incontro, trasmette una grande joie de vivre e rafforza la lezione di grandi attori, veri e propri maestri indimenticati e indimenticabili del nostro cinema.
Grazie ancora Maestri. Chapeau!
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