Intervista a Giuseppe Lupo, scrittore e saggista, insegna all’Università Cattolica di Milano e di Brescia. Ha pubblicato “La Storia senza redenzione. Il racconto del Mezzogiorno lungo due secoli” (Rubbettino, 2021)
Nel suo saggio, lei individua due approcci degli scrittori meridionali e meridionalisti: quello “angioino”, votato al racconto, e quello “aragonese”, di denuncia e immobilismo. Perché a trionfare è stato l’atteggiamento spagnolo dei Malavoglia e del Gattopardo e non invece la fantasia di Basile?
Direi che c’è anzitutto un fattore numerico: sono stati scritti meno libri “angioini” dedicati alla visione comica e onirica della vita e c’è per contro un sovrabbondare di autori tragici, “aragonesi”. Oltretutto l’atteggiamento di denuncia non chiede al pubblico – e neppure allo scrittore – un salto di qualità. Il lettore trova nei libri tutte le conferme di ciò che pensa. Leggere di un Meridione corrotto è un’esigenza più facile da appagare rispetto a quanto non sia immaginare il mondo per come si vorrebbe che fosse e non per com’è.
La denuncia è sempre denuncia di un male, e il male può affascinare. Forse la realtà è talmente pregna di male da diventare più attraente della fantasia?
Personalmente non trovo che la scrittura graffiante la realtà sia più affascinante. Penso invece che i libri di denuncia si nutrano della morbosità di chi li legge, dell’ossessione di chi vuole a tutti i costi sapere perché. Ma io credo che uno scrittore, dinanzi a un foglio bianco, si trovi al cospetto di un bivio: può scegliere la strada più battuta, o può decidere di riscrivere e reinterpretare le cose.
Negli autori che ha studiato, il tema della fuga è centrale. Ma cos’è la fuga? È forse un modo per affrancarsi da un Meridione infero, tagliato fuori dalla storia?
La fuga è un fenomeno che avviene quando si manifesta la percezione del fallimento. È la storia di Enea che prende atto della catastrofe: quando una civiltà è in fiamme, la prima cosa da fare è fuggire. Ma la fuga va vista anche all’incontrario. Allontanarsi dal proprio mondo diventa l’occasione per misurarsi col diverso e col moderno. Anche nella Bibbia si fugge. È la vita stessa a voler abbandonare la civiltà di un medioevo continuato: un uomo che diventa operaio della Pirelli non vive la tragedia della lontananza, ma si libera. Diventa cittadino della modernità.
Cosa spinse invece scrittori settentrionali, da Carlo Levi a Giuseppe Berto, a rivolgersi alla Bassa Italia?
Da un lato ci sono ragioni che appartengono al vissuto personale, dall’altro bisogna dire che il Sud rappresentò per molti la soglia del premoderno. Era un laboratorio antropologico. Gli scrittori settentrionali avevano in animo di guardare indietro, e il Mezzogiorno per certi versi era il luogo dell’origine, il topos della civiltà contadina da cui trarre il perché della dimensione moderna.
Dovesse individuare un solo libro che identifichi la sua visione del Mezzogiorno, quale sceglierebbe?
Direi Il quinto evangelio di Mario Pomilio. È un’opera di grande proiezione sul futuro, in grado di leggere il tempo che sarà, piegandolo all’idea della speranza e dell’utopia. Si tratta di un libro strano, labirintico, senza trama. In generale, fuggo i pianti di coccodrillo, quei libri indisponibili a confrontarsi con la storia e con la civiltà moderna.
Oggi continua a prevalere l’atteggiamento aragonese. Crede che la denuncia dei fatti, mista alla morbosità, continui a deformare la realtà stessa? Penso a Saviano.
Sì, Saviano è nel solco degli “aragonesi”. Ma penso anche all’affermarsi del mercato del giallo e all’ossessione per il tema dell’inchiesta. Nei gialli lo scrittore si preoccupa di raccontare il delitto finché il colpevole non viene preso. Tutto quello che succede dopo non viene raccontato. Mentre Dostoevskij scriveva della colpa, del perdono, della crisi di coscienza, i giallisti e i lettori di gialli pensano solo al delitto. Il nodo poliziesco neutralizza il problema etico del romanzo, contribuendo ancora oggi a disegnare un Sud stereotipato.
Il romanzo etico è più faticoso del romanzo tutto-trama, che invece raccoglie più lettori e trasforma la letteratura in sceneggiatura.
Il problema del romanzo si è ridotto a: “come finisce?”. Il pubblico è debole. Ha bisogno della trama per voltare pagina e arrivare fino in fondo. Ma la letteratura non può essere solo questo.
Lei ha scritto di una “doppia Lucania”: quella incarnata dai contadini di Rocco Scotellaro, e l’altra, quella delle macchine di Leonardo Sinisgalli. In occasione delle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, la Basilicata ha scelto Leonardo Sinisgalli come figura-simbolo della propria storia. Cosa significa questo?
Significa che qualcosa è cambiato. Negli anni Cinquanta prevaleva la linea Levi-Scotellaro: l’immagine stereotipata era quella di un mondo antico e avulso dalla storia. A distanza di cinquant’anni, ha vinto la vocazione leonardesca di Sinisgalli. Il poeta-ingegnere è un modello. Non solo l’impegno politico di Scotellaro, ma anche il rapporto con l’industria rappresenta infatti un’alta forma di impegno civile. La Lucania di Scotellaro non appaga più, e Sinisgalli, un tempo minoritario, è il volto di chi non intende sottrarsi alla modernità.