Qualche anno fa, in una favola profetica ma triste, Michael Ende raccontava di un angelo dentro una città cinta da mura altissime. Grazie alle sue candide ali, in ogni momento potrebbe spiccare il volo e scappare, ma, ogni volta che sta per alzarsi in cielo, è frenato o da qualche paura o da qualche obbligo. Alla fine del giorno, l’angelo è stremato, sfinito. Le sue ali – diventate sfibrate, non più candide, grigie di mestizia – giacciono al suolo incapaci di sollevarsi. Con l’ultimo raggio del sole morente, l’angelo comprende di avere sprecato la sua unica possibilità. Le sue ali erano fatte per volare, non per restare dentro la città. Per vivere avrebbe dovuto rischiare.
E se noi, la nostra società e i nostri governi fossimo simili a quell’angelo? Due libri, apparentemente lontani come stile e materia, prendono in considerazione questa possibilità: la rinuncia all’esistenza potrebbe essere la cifra comune del clima sociale, culturale e politico della nostra epoca. Con linguaggio e stili diversi, i due autori si chiedono se la nostra cultura si sia ripiegata su se stessa in un clima di paura, conservazione, assenza di desiderio. Il futuro sarebbe così per lo più un pericolo incombente, non l’orizzonte verso cui realizzare la propria natura.
Il primo volume è Il governo mondiale dell’emergenza di Alessandro Colombo (Cortina, 2023) ed è un saggio sul ruolo giocato dalla ricerca della sicurezza nel plasmare la politica e le relazioni tra governi. Secondo Colombo, la nostra società è dominata da un sentimento di paura e insicurezza croniche paradossalmente prodotte dalla ricerca di una sicurezza tanto assoluta quanto irrealizzabile. Una buona metafora di questa condizione è offerta dalla Tana di Kafka dove un animale, per difendersi da ogni pericolo, si costruisce una tana che lo rende prigioniero: «chi vuole troppa sicurezza è destinato a non smettere mai di sentirsi in pericolo». È l’errore, mi sia consentito l’accostamento, che, in Star Wars, porta Anakin Skywalker (alias Darth Vader) ad abbracciare il lato oscuro della forza …
Colombo analizza l’evoluzione del quadro geopolitico occidentale, dalla fine della guerra fredda fino ai giorni nostri, sottolineando come lo stato di eccezione determinato dal ripetersi ininterrotto di crisi sia paradossale. Le continue emergenze – l’attentato delle torre gemelle, la crisi del terrorismo, il crollo economico, la guerre per prevenire il terrorismo, la pandemia e, in questi giorni, la guerra russo-ucraina – producono una cultura paradossale che si muove sui piani paralleli della sicurezza della paura: «per un’umanità predisposta e, almeno in una certa misura, abituatati a vivere in un paradiso sgombro da pericoli, competitori e alternative, la semplice apparizione di un estraneo basta a sollevare un senso quasi apocalittico di minaccia». E così, cessata la grande minaccia del conflitto nucleare-mondiale che aveva contraddistinto il periodo successivo alle guerre mondiali, la società sogna – e spesso dichiara – una fine della storia come percorso dialettico tra forze contrapposte.
Il globalismo capitalista viene innalzato a pan-ideologia senza alternative che non potrà che continuare indefinitamente. E così, come scrisse Alexandre Kojève, «non ci sarà mai più niente di nuovo sulla terra». In fondo, da Fischer a Fukuyama, si è detto che il capitalismo liberista è il compimento dei tempi, anche se, è bene ricordarlo, ogni epoca è incapace di immaginare una alternativa a se stessa per finire poi, come l’Ozymandias di Voltaire, sepolta dalle sabbie prodotte dal suo stesso sgretolamento.
Il mito dell’eternità dei propri valori – e quindi della sicurezza a ogni costo – determina una serie di trasformazioni semantiche: la guerra diventa un’operazione di pulizia o persino un intervento umanitario; i nemici diventano dei criminali; il diverso è un malato che deve essere guarito; le azioni militari sono azioni di prevenzione. La pandemia è narrata come una guerra e le altre crisi sono spesso raccontate come epidemie (il contagio del debito, delle fake news, del terrorismo). La guerra è una forma di pulizia e la pulizia biologica è richiesta come manifestazione della pulizia morale. Il cerchio si chiude e si stringe. L’altro non ha più alcuno spazio di manovra perché i valori diventano universali e anche il nuovo viene respinto oltre un futuro remoto e mai raggiungibile.
Al di sotto di una patina di liberalismo, la politica diventa nei fatti conservatrice. Il fine ultimo non è più la realizzazione di un termine positivo, ma l’eliminazione preventiva di qualsiasi fattore metta in discussione lo status quo; una prevenzione che «oltre ad avvenire sempre prima, non deve finire mai». I governi non hanno così altro scopo se non la perpetuazione eterna di se stessi e quindi, come l’animale di Kafka, l’uso della sicurezza come principio negativo per prevenire qualsiasi cambiamento.
È significativo che le minacce siano spesso declinate in modo da imporre una reazione collettiva; dall’uso indiscriminato delle mascherine alle liturgie dei controlli negli aeroporti, dall’alimentazione ai trasporti. La minaccia esterna giustifica lo scivolamento da una dimensione razionale a quella etico-moralistica: la minaccia (esterna) sarà superata solo se chi è all’interno si comporterà in modo corretto. Il pericolo esterno diventa così un principio morale da imporre all’interno. La sicurezza diventa così, non solo una condizione pratica, ma un traguardo etico-morale.
Il tema dell’altro volume, L’uomo indifferenziato di Michele Silenzi (Rubbettino, 2023), è sorprendentemente vicino pur partendo da premesse diverse: la nostra società è caratterizzata dalla mancanza di una direzione che non sia il mantenimento dell’esistente o la difesa dello spazio vuoto di possibilità preconfezionate. L’uomo indifferenziato è colui che, per timore di soffrire e di far soffrire, rifiuta la scelta e rinnega lo streben faustiano (ma anche di Prometeo) che lo spingerebbe a cercare e a identificarsi con qualcosa che abbia significato. La società indifferenziata rimuove «l’uomo stesso, causa e fine dell’azione» per sostituirlo con un essere sociale generico. La società diventa lo spazio della suprema indifferenziazione dove l’ideale dell’uguaglianza e dell’inclusione si trasforma così in una notte dove tutte le vacche sono nere.
Secondo Silenzi, l’uomo indifferenziato rifiuta «il processo fatto di conflitti distruttivi e creativi, doloroso come le doglie di un parto continuo» e pensa che «il ripiegamento sia l’unica strategia che consente di trovare una verità […] che però si riduce alla ricerca del puro benessere psicofisico, che poi altro non è che il radicale rifiuto di ogni forma di dolore». Al contrario, l’esistenza umana è rappresentata da Polemos, una delle incarnazioni di Ares, ovvero lotta, divisione, distruzione creativa. La vita non può essere stasi, conservazione di uno spazio vuoto, privo di tensione; deve essere significato, sforzo, divenire.
La riduzione della vita ad assenza di dolore è la base del principio della sicurezza (e qua l’insospettabile filo rosso che lega i due libri comincia ad apparire in tutta la sua evidenza). Non si perseguono principi positivi, ma si elimina la sofferenza. Si desidera solo uno spazio vuoto, da lasciare tale per paura di possibili errori. Pretendere che non ci siano mai vittime, che nessuno soffra, diventa l’unica bussola delle nostre azioni. La cancel culture e certi estremi della mentalità woke vanno in questa direzione. L’uguaglianza, prima illuminista e poi marxista, da forza positiva diventa un «principio puramente negatore». Il desiderio di essere come tutti si trasforma nell’impossibilità di essere veramente qualcuno. Poiché qualsiasi azione o parola, anche la più insospettabile, può produrre dolore ecco che diventa «necessario uniformare, indifferenziare, equalizzare, codificare un linguaggio e dei comportamenti sempre più stringenti e limitanti». La sicurezza si manifesta così nella sua dimensione esistenziale e ingloba tutto.
La società degli indifferenziati realizza l’ideale di Brecht di mondo che non ha bisogno di eroi, perché non esiste più un orizzonte in cui la sofferenza, il dolore, l’infelicità possano avere un significato che vada oltre gli stati emotivi. Le emozioni, che una volta guidavano il comportamento degli esseri umani, vengono elevate a scopo ultimo della realtà: «l’eroismo è impraticabile perché a nulla viene riconosciuto un supremo significato». Laddove Nietzsche rivendicava la realizzazione dell’esistenza, qui il rapporto si è invertito: uno stato di benessere psicofisico uniforme è il fine ultimo della società. Si tratta di una china scivolosa che, se accompagnata alla visione neurocentrica della mente, prefigura scenari distopici di biocontrollo: «l’emotività ha preso il controllo del mondo individuale e collettivo» (Davis, 2019).
Nella società indifferenziata dominata dalla ricerca della sicurezza, terrorismo, virus biologici, attacchi informatici, guerre e riscaldamento globale sono presentati come altrettanti errori da correggere per ripristinare quella condizione di assenza di rischio che il capitalismo sente come indispensabile alla sua perpetuazione. Conduciamo un’esistenza che ha per obiettivo, se tutto va bene, come il Sisifo di Camus, di continuare a spingere il macigno sempre più in alto, per poi ripartire da zero senza però uscire veramente dalla città globalizzata e universale. L’uomo occidentale non combatte le minacce per realizzare i suoi obiettivi, ma per mantenere quello spazio vuoto all’interno del quale si possano realizzare le possibilità ammesse dalla globalizzazione. Si tratta di un obiettivo lodevole, ma solo nella misura in cui il nuovo possa essere una vera alternativa al vecchio. Altrimenti il paesaggio della storia è solo un parco giochi capitalista dove la libertà delle persone e degli stati è simile alla libertà del bambino: una libertà controllata, tutelata, medicalizzata, autorizzata.
Entrambi i libri raccontano e analizzano, in contesti diversi, il vuoto dell’esistenza quando non si è pronti ad accettare il rischio. Fanno capire perché oggi il progresso sia connotato negativamente: il cambiamento è una minaccia per una società che si considera già compiuta e quindi perfetta; Il progresso è subìto, alimentato da forze incomprensibili (l’intelligenza artificiale per prima) che l’uomo non domina più. Il progresso non è più la locomotiva di Guccini che «l’uomo dominava con il pensiero e con la mano». Il futuro è una terra incognita dove non siamo sicuri di esserci.
L’inclusività come dimensione unica e assoluta soffoca il dinamismo, non sempre virtuoso ma essenziale, dell’esistenza. Secondo la visione tecnocentrica dominante, il mondo non ha significato, siamo noi che glielo diamo; ma così il significato rimane soggettivo e gli eroi sono solo degli illusi. La conclusione, deprimente, è la prigionia del non scegliere, ovvero della sicurezza preventiva. Volare implica un rischio che nessuno è disposto a correre. Così però, si rimane, come l’angelo triste della favola di Ende, dentro la città globale ad aspettare l’inevitabile tramonto. Chi cerca solo la sicurezza – ovvero la potenza, ma non l’esercizio in atto della libertà – non vive. Chi non rischia, è sicuro di perdere. La sicurezza, senza significato, è un’esistenza vuota.