Siate umili, liberalizzate (Il Foglio)

del 13 Gennaio 2012

Da Il Foglio – 13 gennaio 2012
Siate umili, liberalizzate
La concorrenza può diventare un feticcio, ma è l’unica via per soddisfare milioni di esigenze diffuse
Quelli che seguono sono stralci della voce “Concorrenza” dal “Dizionario del Liberalismo italiiano” edito da Rubbettino, in uscita in questi giorni, promosso tra gli altri da Francesco Forte, Fabio Grassi Orsini, Giovanni Orsina e curato da Gerardo Nicolosi.
La concorrenza è un processo di scoperta che avviene in condizione di rivalità: la sintetica definizione è proposta da Stephen L. Littlechild (2009), sulla scorta dell’insegnamento soprattutto di Friedrich A. von Hayek(1899-1992), forse l’autore che più di ogni altro ha contribuito a porre le condizioni per una revisione in senso liberale delle teorie della concorrenza. In passato, l’enfasi era stata perlopiù sulla condizione di rivalità – ovvero sul pluralismo sul versante dell’offerta. Nell’ambito della teoria emersa come dominante dall’economia neoclassica, si era giunti a definire le condizioni di “concorrenza perfetta” sulla base di taluni assunti:

– l’impresa più grande, in un dato mercato, non vi contribuisce che con una modesta frazione delle vendite: vi sono pertanto molte imprese, in quel settore industriale;
– ciascuna di queste imprese che rivaleggiano, l’una con l’altra, per attrarre la domanda, è gestita indipendentemente dalle altre. Il decision making imprenditoriale è pertanto disperso, nel mercato;
– ciascuna di queste imprese vanta una conoscenza perfetta delle condizioni di produzione. Se i primi due assunti assicurano l’autonomia delle imprese coinvolte nel processo competitivo, questo terzo contribuisce a far sì che esse possano venire effettivamente considerate parte di uno stesso mercato: l’assoluta congruenza delle informazioni disponibili rispetto alle condizioni in cui si produce e si scambia, fa sì che i prodotti siano perfettamente equivalenti. La concorrenza, dunque, implica sostituibilità dal lato della domanda: per il consumatore, il prodotto dell’impresa A vale il prodotto dell’impresa B;
– i fattori produttivi sono uniformemente mobili, e l’informazione sul loro uso più efficiente è perfettamente distribuita. Si presuppone che la tecnologia sia “data” (non vi è impatto dell’innovazione tecnologica) e tutte le imprese abbiano a disposizione la più efficiente. La struttura dei costi delle imprese è pertanto identica.
Le due condizioni cruciali, perché vi sia concorrenza perfetta, sono allora l’esclusione della strategia del prezzo dall’ambito del decision making imprenditoriale, e quella che è nota come la “legge d’indifferenza” di Jevons: in un qualsiasi istante, in un mercato perfetto, a causa dell’uniforme distribuzione dell’informazione non può esistere più di un prezzo per una merce omogenea. Anche a uno sguardo superficiale tali condizioni di “concorrenza perfetta” appaiono, però, come caratteristiche esclusivamente di un modello assolutamente astratto, di una stilizzazione del mercato. Non senza ironia, Joseph Schumpeter (1883-1956) ha osservato che la popolarità della teoria della concorrenza perfetta beneficiò del fatto che “quasi tutti [gli economisti neoclassici] furono inclini a cedere alla simpatia specifica del teorico economico, la simpatia cioè per i modelli facilmente maneggevoli”. Non troppo diversamente, Bruno Leoni (1913-1967) trovava “sofistica” una teoria fondata su “costi ipotetici di imprese ideali”, pertanto avulsa dall’analisi più puntuale delle reali condizioni di mercato. Anche per questo motivo, la critica dell’assunto della perfetta distribuzione dell’informazione ha avuto fortuna oltre i ristretti confini della scuola austriaca dell’economia, incrociando l’analisi di autori (Ronald H. Coase e Oliver Williamson su tutti) che hanno fatto oggetto di studio “la natura dell’impresa”, e non solo la sua teoria. In queste innovazioni, la centralità della lezione hayekiana è innegabile. Fulcro ne è la riflessione sulla natura non solo asimmetrica, ma distribuita e dispersa, dell’informazione in una società. Il primo punto è strettamente legato al cosiddetto “dibattito sul calcolo economico” in un sistema socialista affrontato da Ludwig von Mises (1881-1973) e da Hayek stesso. Il loro seminale lavoro mette in dubbio non solo la razionalità di un’economia pianificata ma, su più larga scala, l’opportunità di qualsiasi intervento esterno in un mercato. Nella prospettiva di Hayek, la questione chiave è il fatto della dispersione delle conoscenze, a cui corrisponde un ordine che possa razionalizzare la molteplicità delle possibilità produttive: un ordine incardinato su diritti di proprietà, in cui siano possibili lo scambio ed un sistema di prezzi che rifletta le scarsità. Per gli autori della scuola austriaca dell’economia, i prezzi sono essenzialmente veicoli d’informazione. Essi servono a concentrare “tutte le informazioni rilevanti (…) in un sistema in cui la conoscenza di fatti rilevanti si trova dispersa fra molte persone, i prezzi possono servire a coordinare le azioni separate di persone differenti, allo stesso modo in cui i valori soggettivi aiutano l’individuo a coordinare le parti del suo piano”. Il sistema dei prezzi si attiva non perché qualcuno fra gli attori “passi in rassegna l’intero campo, ma perché i loro limitati campi visivi individuali si sovrappongono in modo sufficiente affinché attraverso molti intermediari le informazioni rilevanti siano comunicate a tutti. Il semplice fatto che ci sia un solo prezzo per ogni merce (…) genera la soluzione cui avrebbe potuto giungere (ma è solo concettualmente possibile) una singola mente in possesso di tutte le informazioni che di fatto si trovano disperse tra tutte le persone coinvolte in questo processo” (Von Hayek). Attraverso il sistema dei prezzi, pertanto, vengono canalizzate informazioni che non soltanto sono disperse, ma in una qualche misura sono inconoscibili ad altri che a coloro che sono effettivamente impegnati in una transazione. Hayek fa riferimento alle concrete circostanze della produzione, evocando quello che l’epistemologo Michael Polanyi (1891-1976) definì “conoscenza personale”. Per Polanyi, parte delle conoscenze degli individui sono assimilabili al modo in cui “ciascuno inventa un metodo per nuotare senza sapere che esso consiste nel regolare il respiro in un modo particolare”. Anche negli aspetti apparentemente più umili e marginali, ciò che si verifica è “la scoperta pratica di un ampio spettro di regole, non conosciute consciamente, di talenti e di conoscenze che comprendono importanti processi tecnici che possono raramente venire completamente spiegati (a posteriori), ed anche allora solo dopo un’estensiva ricerca scientifica”. Un’analisi di questo tipo converge con la riflessione di chi, come Schumpeter, rileva che “la vita economica in una società non socialista consiste in milioni di relazioni o flussi tra singole imprese e singole economie domestiche. Possiamo stabilire alcuni teoremi su tali relazioni, ma non possiamo mai osservarle tutte”. Questa visione “epistemologicamente umile” porta Hayek e gli austriaci a “mettere da parte” “le ipotesi artificiali che sottostanno alla teoria della concorrenza perfetta” (Von Hayek), fino a capovolgere del tutto la visione neoclassica della concorrenza. Per Hayek “il vero problema non è quello di appurare se sia possibile ottenere date merci e dati servizi a costi marginali dati, ma quello di individuare quali merci e servizi sono in grado di soddisfare i bisogni della gente nella maniera più economica possibile. Da questo punto di vista, la soluzione del problema economico della società è sempre un viaggio esplorativo nell’ignoto, un tentativo di scoprire nuovi modi di fare le cose in maniera migliore di quella in cui sono state fatte in precedenza. E sarà sempre così, fino a quando ci saranno problemi economici da risolvere, perché tutti i problemi economici sorgono a causa di cambiamenti imprevisti che richiedono qualche adattamento”. I termini della concorrenza perfetta sono pertanto del tutto abbandonati– tant’è che si passa da un’analisi del mercato a tecnologia e struttura dei costi costanti, a una visione del ruolo stesso del mercato come “economizzatore” della struttura dei costi. La teoria austriaca ha dunque il grande vantaggio di non avere bisogno di “adattarsi” per contemplare l’evoluzione tecnologica. Essa è consapevole, con Schumpeter, che “chi studia il capitalismo studia un processo essenzialmente evolutivo (…) il capitalismo è per sua natura una forma o un metodo di evoluzione economica; non solo non è mai, ma non può mai essere, stazionario”. Questo approccio ha aperto nuovi orizzonti non solo nello studio dei mercati, ma anche nella interpretazione politica del valore della concorrenza. Ha portato a enfatizzare i benefici dinamici anziché quelli statici della concorrenza, e quindi ha condotto a vedere nei sistemi di libero mercato istituzioni in grado di stimolare l’innovazione e consentire il miglior utilizzo possibile della conoscenza dispersa nella società. I benefici della concorrenza non sono più compresi solamente in virtù dei prezzi inferiori che la gara competitiva fra diversi produttori provoca, ma sono associati alla possibilità che nuovi servizi e nuovi beni, o nuove modalità di produzione, siano sviluppati. Ciò porta a guardare con occhi nuovi le normative antitrust. (…) Si comprende come la presenza di un solo produttore può essere conseguenza del fatto che egli è pervenuto per primo a una qualche innovazione. (…) Per Bruno Leoni, è solo “il monopolio imposto dal sovrano” a essere pericoloso. Dal momento che trae forza dalla “mano pubblica”, esso finisce per rendere impossibile al consumatore cambiare le proprie preferenze, che sarebbe la prima strategia di “emancipazione” da un monopolio privato che fosse percepito come pernicioso. La scuola di Leoni e Ricossa è tuttavia minoritaria, anche su questi temi. In Italia, infatti, la tradizione liberale degli ultimi cinquant’anni è tipicamente associata alla promozione di robuste normative antitrust. Ciò viene ricondotto alla predicazione del suo più illustre campione, Luigi Einaudi (1874-1961). Come ha avuto modo di ricordare Mario Draghi, “nel 1947, come membro dell’Assemblea Costituente della Repubblica di cui sarebbe poi divenuto il primo Presidente a pieno titolo, Einaudi propose di inserire nella Costituzione una clausola anti-monopolio: ‘La legge non è strumento di formazione di monopoli economici; ed ove questi esistano li sottopone a pubblico controllo a mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta’. La sua proposta fu respinta con argomentazioni non convincenti; una normativa nazionale antitrust arrivò molto dopo la morte di Einaudi”. La clausola proposta da Einaudi era logicamente scomponibile in due parti. Da una parte, Einaudi ambiva a rendere illegale il “monopolio imposto dal sovrano”: l’uso della coercizione contro la libertà economica. Dall’altra, egli riteneva che l’eventuale “monopolio privato” stesse meglio in mani pubbliche – assumendo cioè che un monopolio spontaneamente emerso, quand’anche la sua sopravvenienza fosse meno probabile, non fosse destinato a essere inevitabilmente incalzato dalla concorrenza, e anzi fosse altrettanto pericoloso di un monopolio sorto per iniziativa del legislatore. Questa ambiguità ha contrassegnato anche il difficile, successivo percorso dell’antitrust in Italia. (…) Se nel nostro Paese divenne vieppiù comune l’opinione di Guido Carli (1914-1993) per cui “una legislazione a tutela della libera concorrenza sarebbe stata forse il solo argine efficace contro le invasioni di campo dell’industria pubblica” (1977), non era più impossibile a un osservatore acuto comprendere ciò che Leoni spiegò con insuperata chiarezza in una replica a Eugenio Scalfari: “Non si possono combattere i monopoli privati con mezzi che esaltano direttamente o indirettamente lo Stato come fonte di monopoli pubblici o quasi pubblici, senza distruggere con ciò stesso quella libertà di concorrenza e di iniziativa privata che ogni vero liberale deve difendere prima di ogni altra cosa” (1953). (…)


Di Alberto Mingardi

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