Un libro giunge a fagiolo, come si dice. Mi è stato omaggiato da qualcuno che vorrebbe morissi «più contento». Ha aggiunto, per evitare l’accusa di iettatore: «Il più tardi possibile, ma soprattutto sereno». Lo considero un pensiero giudizioso.
Non sono pagine facili da masticare, vanno dal filosofico allo scientifico, con alto tasso di difficoltà, ma salire su queste cime vale la fatica della scalata. Insegna che cos’è il dolore (fisico), che cos’è la sofferenza (morale, psichica), e come la scienza e la letteratura, l’umanesimo e insieme la cibernetica possano aiutare a non far essere la fine della vita qualcosa di ripugnante. Cioè senza disperazione né pene atroci. La solitudine è inevitabile. Come scrisse Martin Heidegger: «Si muore», non è un caffè in compagnia, non c’è zucchero, e il Vate della Foresta Nera è universalmente riconosciuto come il filosofo più grande degli ultimi cento anni. Eccolo: Ivan Rizzi (con Francesco Cetta), La solitudine del dolore. Un sogno al posto della paura, Rubbettino, 2021, pp. 161, 14,00 euro. Perché questo argomento? Tutto è cominciato la domenica di Pasqua. Nel giorno dedicato dalla religione cristiana alla vittoria sulla morte, mi sono dichiarato alquanto sfiduciato sul tema. Dal mio sepolcro, o più probabilmente dal loculo del colombario, non salterà fuori alla fine dei tempi alcun Vittorio Feltri vispo e radioso. Non credo insomma né alla resurrezione della carne e neppure all’immortalità dell’anima o a qualsiasi forma di sopravvivenza. Il cimitero è l’ultima parola sulla vita. Punto e basta così. Anzi, pensavo bastasse. Invece no. Mi sono giunte domande di chiarimento e talune civili contestazioni non però sull’esistenza o meno dell’aldilà: ciascuno si tiene la propria convinzione, sempre colma di dubbi. Sono gli argomenti sui quali Alessia Ardesi ha intervistato cardinali, artisti e giornalisti, tra i quali – giusto a Pasqua – il sottoscritto. Ma non è sull’oltretomba e le mie idee in merito che alcuni vorrebbero ulteriori notizie. Ma i quesiti si riferiscono all’ultimo miglio, all’ultimo metro, centimetro, millimetro prima della morte. Cioè sul morire. Mi ha chiesto Alessia: «Pensa mai alla morte?». Ho risposto: «Una volta al giorno, tutti i giorni. Non la temo; temo il morire. Ho paura del modo in cui arriverà. Vorrei evitare la sofferenza fisica. Il dolore fisico mi agita. Quando fui ricoverato per una prostatite acuta, che rischiava di diventare qualcosa di più grave, ero molto spaventato. Un giorno provò anche a entrare nella mia stanza dell’ospedale un frate. Lo fermai sulla porta: “Lasci perdere”. Lui se ne andò ridendo». Ho rimosso il frate, ma non ho rimosso quel bruciore e quella desolazione che avverto considerando l’ultima ora. Mi fa paura. Non mi vergogno di dirlo. Per questo mi sono sentito solidale con Laura Boldrini quando ha confessato questo sentimento mentre si accingeva a sottoporsi ad un’operazione chirurgica difficile.
SOLITUDINE
Detto questo non procedo in mie ulteriori considerazioni. Lascio spazio ai due autori, che sono una coppia che dialoga mettendo insieme competenze diversissime. Rizzi è presidente dell’Istituto Alti Studi Strategici Politici (Iassp) ed è docente di filosofia morale. Cetta è professore ordinario di medicina, docente presso l’Università San Raffaele di Milano. I due si protendono l’uno verso l’altro, mettendo a tema appunto «la solitudine del dolore», che è tale quando si sta morendo, negli hospice sempre più spesso, e questa condizione umana non può essere sdrammatizzata od occultata con eufemismi. Loro non lo fanno, e meritano gratitudine. Non serve mettere la testa sotto il lenzuolo (almeno finché si è vivi, poi ci penseranno mani pietose). Oggi, credendo di smorzarne la tragedia, si tende a igienizzare la fase terminale dell’esistenza, inserendola in un contesto disinfettato, con camici puliti, mentre gli altri la vivono tutti dall’esterno, partecipi sì, empatici fin quando si vuole, ma intanto a morire è un altro. E questa assoluta solitudine il morente la percepisce. E nutre invidia per i sopravviventi. In fondo pensa che meriterebbero di più di essere spacciati coloro che ti stanno intorno, anche se non vorrebbe pensarlo, ma non sfugge a queste riflessioni. Non mi sento di racchiudere in qualche frase la tesi di fondo del volume. Gli autori invocano la congiunzione di spiritualità e di tecnica. Non tenute separate come accade ora, e cioè con il medico che si preoccupa di eliminare la percezione del dolore, e con il prete o l’amico o la filosofia buddista che attenuano l’angoscia e consentono di sciogliere l’agonia in dolcezza. Figuriamoci. Prima di tutto bisogna accettare un limite insuperabile. «Non esiste un dolce morire… C’è poca memoria di persone amate o conosciute che non siano morte nel patimento e nella consunzione, né crediamo ci si possa ingannare rispetto a ciò che ci attende». Eppure è possibile aiutarsi a morire bene, anche se sembrano parole che fanno a pugni tra loro. È possibile almeno un poco spezzare la campana di vetro della solitudine. A questo tendiamo. Anche se pesa la sentenza di un altro grande filosofo, Edgar Morin: «L’uomo nasconde la sua morte come nasconde il suo sesso, come nasconde i suoi escrementi. Si presenta ben abbottonato e sembra ignori qualunque lordura. Lo si direbbe un angelo… Fa l’angelo per rifiutare la bestia. Si vergogna della sua specie: la trova oscena». Mi riconosco in questa visione, parola per parola.
BRIVIDO
Scrive Rizzi che chi è intorno si sforza di ridurre questa distanza, e vivere la morte di una persona amata porta con sé «il brivido dell’identico». Sappiamo che quel morire accadrà anche a noi, ma infine lo rifiutiamo. Ci ritiriamo. E lasciamo l’altro solo. Non è una vigliaccheria o mancanza d’amore. Siamo fatti così. Come scrisse Lev Tolstoj nell’immortale (immortale?) racconto de La morte di Ivan Il’ic, il protagonista dentro di sé aveva ammesso e ammetteva ancora, nel momento supremo, che Tizio o Caio essendo mortale era giusto morisse, ma lui proprio no, «per lui era un’altra cosa». Era pieno di sentimenti, di pensieri unici. «E non era possibile che dovesse morire. Sarebbe stato troppo spaventoso». La conclusione è che «esiste il morire, la morte non esiste più». Un po’ come diceva Epicuro, invitando a non temere la morte. Se tu non esisti più, come puoi sperimentarla? E qui scopro di aver ragione io quando sostengo di aver paura del morire e non della morte. Come dice Tolstoj, il più grande scrittore di sempre: «La morte non è umana, lo è il morire».
UN SOGNO
Ho ripetuto ossessivamente questi lemmi con i relativi verbi: morte, morire, mortale. Ho voluto evitare i cosiddetti sinonimi, che sono dolcificazioni: trapasso, scomparsa, perdita, dipartita. Quali rimedi allora all’«angoscia mortale» al «cattivo morire»? Dal lavoro degli autori emerge che la scienza ormai è in grado di annullare o quasi il «dolore fisico» (non sapevo che il «dolore parossistico estremo» insiste sull’intestino retto, sull’occhio e sotto la mandibola, ma ce n’è di ogni tipo come le caramelle al mercato, ahimè). E lo sforzo congiunto di più discipline consente di sedare lasciando la possibilità di pensare, di avere coscienza. E c’è modo di insistere chimicamente su certe parti del cervello per indurre una visione più colorata della livida morte. Ma è giusto? E siamo sicuri che la sofferenza non ti afferri più in profondità? E che cos’è a quel punto la libertà di coscienza? Siccome non ci sono passato, non so dirlo. E quando ci sarò passato, non avrò modo di farlo sapere. Lazzaro che è tornato da là, non ci ha fatto sapere nulla.
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Rizzi, La solitudine del dolore. Un sogno al posto della paura