Nel giro di poco più di un anno è passato da oggetto semi-misterioso a modalità di lavoro entrata prepotentemente nella quotidianità di molti di noi. Stiamo parlando dello smartworking, uno dei temi più dibattuti da un po’ di tempo a questa parte, a ragione. Se infatti prima del Covid 570mila lavoratori in Italia erano in regime di smartworking oggi si parla di oltre cinque milioni di persone (dati Osservatorio smartworking Politecnico).
Lo racconta Marco Bentivogli, ex segretario generale della FIM CISL protagonista di alcune tra le vertenzesindacali più complicate e note in ambito industriale, da Ilva a Whirlpool, attuale coordinatore di Base Italia, associazione finalizzata alla promozione e la realizzazione di iniziative di ricerca su temi economici, giuridici, sociali e ambientali a livello nazionale, nel suo libro Indipendenti. «Guida allo smartworking» (Rubbettino, 2020), raccontato nel corso di una conversazione con La Repubblica degli Stagisti.
La scelta del titolo è subito spiegata: «Lo smartworking è un percorso di innovazione che incentiva l’autonomia del lavoratore. Va distinto dal telelavoro, che è quello che abbiamo visto più spesso in questi mesi mentre le aziende che avevano adottato il vero smartworking già prima della pandemia hanno retto molto meglio la crisi. Già in condizioni normali, infatti, è proprio la mancanza di autonomia a soffocare produttività e benessere delle persone al lavoro, da qui il titolo del libro. Nonostante nel lavoro agile sia ancora più decisiva la relazione, il lavoro di gruppo, la capacità di coordinamento, con gli altri. Urge quindi un salto di qualità dei processi di apprendimento: le organizzazioni e le imprese che creano dipendenze sono nocive, ingabbiano le energie migliori degli esseri umani. Per questo avere lavoratori indipendenti, responsabili e felici deve diventare un obiettivo generale».
La pandemia ha senz’altro fatto da «acceleratore» per lo smartworking in molte aziende, segno che probabilmente in passato qualcosa era mancato: «è mancato sicuramente il coraggio anche se in ambito tecnologico la paura dell’innovazione è un sentimento ricorrente nel nostro Paese. Oggi dibattiamo sul fatto che i robot ruberanno o meno posti di lavoro in fabbrica ma nell’Italia del 1978 la produzione della Fiat Ritmo era completamente automatizzata. L’industria 4.0 è un’evoluzione di quegli automatismi: tutto è perennemente connesso, i robot possono dialogare fra loro e con l’uomo», continua Bentivogli.
In un contesto di crescente importanza degli strumenti tecnologici si assiste però a una progressiva crescita dell’età media della popolazione residente, 45,7 anni al primo gennaio 2020 e a una parallela diminuzione delle nascite. Chi ha a che fare con lo smartworking non è quindi solo il giovane, padrone degli strumenti tecnologici, ma anche chi sta o deve pian piano imparare a conviverci tutti i giorni. Come fare allora? Per Bentivogli la chiave è «un grande piano di reskilling dei lavoratori over 50. Dall’autunno scorso in poi, credo che, in Italia, un’importante parte del mondo produttivo si trovi in grosse difficoltà, con il rischio di chiudere, mentre un’altra parte è nelle condizioni di correre e di crescere. Dovremo vedere come il nostro Paese sarà in grado di attivare strumenti per interpretare questo momento e mettere in atto politiche pubbliche di accompagnamento all’innovazione. Bisogna evitare la doppia sconfitta: quella di chi perderà il lavoro in aziende fuori dal gorgo dell’innovazione e quelle che invece accelereranno senza accompagnare le persone nella loro riqualificazione professionale».
La completa affermazione dello smartworking deve quindi fare i conti da un lato con un importante lavoro di «alfabetizzazione digitale» di buona parte della popolazione, dall’altra con un cambiamento di approccio nel mondo aziendale, che privilegi l’autonomia del lavoratore sulla logica del controllo: «La mentalità di chi governa l’impresa va cambiata anche perché le nuove tecnologie rendono sempre più complesso misurare la produttività in termini di ore di presenza e di pezzi prodotti dalla singola persona. I vecchi modelli, quindi, si dimostrano superati».
Insomma la logica del cartellino deve necessariamente lasciare il passo a una dimensione che fa leva sull’autonomia delle persone, superando un approccio molto radicato nel panorama lavorativo nazionale. Il confronto con l’estero, Europa e in generale mondo, che emerge dal libro, mostra che in Italia esiste forse un tema di cultura del lavoro, come spiega Bentivogli: «C’è un grande problema culturale a cui si può rispondere solo con la formazione. Spesso, a mo’ di provocazione, sostengo che bisognerebbe tassare l’ignoranza. Un paradosso con cui vorrei sottolineare come si debba forzare sul diritto soggettivo alla formazione, che deve essere inserito in tutti i contratti di lavoro, anche quelli più brevi, e deve assurgere al rango di diritto umano».
Per permettere il «vero» cambiamento serve allora una svolta, partendo da quella che Bentivogli definisce «una nuova cultura di gestione delle imprese» : «per diffondere nuovi concetti ritengo essenziale la creazione di ecosistemi 4.0, che favoriscano l’incrocio e la crescita dei vari fattori abilitanti, compresa una nuova cultura di gestione delle imprese e di formazione dei lavoratori. Mi riferisco, per esempio, ai Competence Center del ministero dello Sviluppo economico, il cui sviluppo è in forte ritardo rispetto ai tempi previsti, oppure ai Digital Innovation Hub, che sono realtà scarsamente integrate nei territori in cui sono state create. Strutture di questo tipo dovrebbero favorire la sedimentazione delle competenze nel territorio e non essere soltanto interfacce propedeutiche all’innovazione. Se non ci riusciamo, la maggior parte del tessuto del lavoro in Italia, che è costituito dall’86% di persone attive in aziende con meno di 15 dipendenti, resterà escluso o, comunque, troppo lontano dall’accesso agli strumenti culturali necessari per entrare in percorsi innovativi di questo tipo».
Un secondo aspetto da cui ripartire è il ripensamento del ruolo del sindacato: «Nella mia precedente vita da sindacalista ripetevo spesso che se anche nel sindacato qualcuno pensa che la fatica, la serialità, l’usura delle mansioni siano spazi da difendere con i denti, si perderà l’occasione di espandere la sfera dell’umano. Accettare la sfida significa ripensare il mondo del lavoro, ma non è detto che mettere in discussione vecchi totem e aprirsi alla tecnologia debba costare in termini di occupazione. Oggi possiamo tutelare l’occupazione solo se siamo capaci di diventare un soggetto che partecipa, insieme con gli altri attori del mondo produttivo, al grande progetto per definire in che cosa consisterà il lavoro del domani. Se la logica con cui verranno costruite le nuove architetture industriali sarà soltanto tecnologica ed economicista, andremo incontro a soluzioni inefficaci, perché escluderemo la parte più profonda dell’uomo, che consiste nella sua umanità».
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