da Il Sole 24 Ore del 25 Aprile
La Guerra fredda è finita da un pezzo, ma auguriamoci che ci siano ancora un bel pò di giapponesi accampati nella giungla, e che ogni tanto ne sbuchi fuori uno, armato fino ai denti: ne abbiamo bisogno. Per esempio si è riaffacciato in libreria, sotto le insegne non già dell’Imperatore ma dell’editore Rubbettino, un attempato ma ancora battagliero pamphlet di Sergio Ricossa che s’intitola I pericoli della solidarietà. Risale al 1993, tra le macerie del Muro, ed è la cosa più simile che abbiamo in Italia al libello dell’australiano David Stove, What’s Wrong with Benevolente (1989). Quella che Stove chiamava benevolenza Ricossa la chiama solidarietà, ma in entrambi i casi il bersaglio è la pretesa dei filantropi e dei benintenzionati di migliorare le condizioni dell’umanità per decreto. In una delle dodici lettere che compongono il libro (indirizzate di volta in volta alla propria gatta, a Groucho Marx, agli amici di Giobbe…) Ricossa cava tre lezioni dalla storia: «Dunque: a) è già difficile conoscere il proprio bene; b) è difficilissimo conoscere il bene altrui; c) è quasi impossibile realizzarlo, pur conoscendolo». È fatale che il discorso scenda in picchiata su Karl Marx, che quando si mise in capo di guarire l’umanità da tutti i mali commise vari errori, «e il primo, grave, fu di non chiederci se eravamo d’accordo». È come la storiella del boy scout che aiuta la vecchietta ad attraversare la strada, senonché quella non ci pensava affatto, e in più finisce sotto un tram. La critica di Ricossa non è morale, è politica: il guaio della solidarietà programmata è che innesca una catena di conseguenze inintenzionali che spesso producono esiti opposti a quelli auspicati. Si vuole abbattere la miseria, e la si propaga. La Guerra fredda è finita, direte voi, e allora perché baloccarsi con queste schermaglie? Per capriccio vintage, per farsi un giro su una Trabant liberale? Il fatto è che Marx è morto, ma la benevolenza lotta insieme a noi. Specie in un Paese dove la politica delle buone intenzioni, della proclamazione di principi virtuosi – sulle droghe,ÂÂÂÂ l’immigrazione, la bioetica, il mercato del lavoro, il femminicidio – si cura poco degli effetti e produce leggi che sono campi minati di prevedibilissime conseguenze non volute. Un manuale di autodifesa serve ancora, quindi. Anche a guerra finita, e anche nella giungla, perché perfino gli animali hanno «il diritto di respingere “i zoofili” con morsi e graffi, cornate e calci, come fanno frequentemente per sano istinto»
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