Risultati di ricerca e spunti di riflessione sul movimento cooperativo
Da Domenica (Il Sole 24 Ore) del 21 febbraio
Negli ultimi due decenni il termine “cooperative” è stato visto come sinonimo di privilegi, ancor più insopportabili in tempi di crisi profonda, sempre a vantaggio di gruppi di ispirazione socialista e cattolico-sociale. Lo scenario si è ulteriormente complicato quando, recentemente, alcune cooperative si sono trovate nuovamente al centro di vicende poco chiare: fin troppo noti i fatti romani, dove la delinquenza è tornata a cancellare lo spartiacque fra destra e sinistra. “Noti”… si fa per dire. Sarebbe utilissima un’indagine puntuale su cosa hanno compreso di queste vicende gli italiani. Preziose, in questo senso, le rilevazioni pubblicate dall’Istat a fine 2015 su come noi ci informiamo.
Di certo non è bastato a contenere questo progressivo declino mediatico del fare cooperativo che una voce amata e autorevole come quella di Papa Francesco abbia sostenuto che le cooperative devono continuare a essere il «motore che solleva e sviluppa la parte più debole delle nostre comunità locali e della società civile. Di questo non è capace un sentimento».
Il volume che qui segnaliamo, scritto da un giovane – ma già affermato – ricercatore di Storia economica e di Storia dell’impresa, Tito Menzani, può contribuire a chiarire alcune cose di fondo sulla cultura e il movimento cooperativo, confrontando i dati storici raccolti, dall’Ottocento fino a oggi, con le opinioni che segnano la nostra “informazione” quotidiana (le imprese cooperative nel mondo contano circa un miliardo di soci, in Italia 12 milioni di soci e 1 milione e 200 mila di addetti, realizzano un fatturato pari a circa l’8% del Pil). Lo studio, di conseguenza, può aiutarci anche a capire come oggi il problema dell’informazione e della comunicazione in cui affoghiamo sia la visione ossessivamente user friendly, di “uso facile”, che caratterizza e la comunicazione e l’informazione. Essere informati e comunicare piace nella misura in cui “ri- troviamo” l’idea che già abbiamo su come vadano le cose e gli uomini. Non vogliamo “conoscere”, e capire, vogliamo “ri-conoscere” e “tifare”. Ne va la nostra sopravvivenza, mentale e psicologica. Ma questa storia, lo sappiamo, è vecchia purtroppo. Intanto un punto fermo della ricerca di Menzani: negli ultimi decenni i valori cooperativi si sono molto sfibrati all’interno delle stesse cooperative. Un esempio per tutti: il progressivo indebolimento della partecipazione dei soci alla governance dell’impresa cooperativa. Cui ha corrisposto una crescente ignoranza da parte delle nuove generazioni di cosa esse siano e perché, nonostante tutto, rappresentino un capitolo di storia economica significativamente orientato al futuro: basti ricordare il rapporto fra etica ed economia alla base della questione fondamentale, citatissima quanto ancora operativamente confusa, della sostenibilità. Emblematico il tasso crescente di ignoranza in questo senso proprio fra coloro che lavorano all’interno delle stesse cooperative, e quindi il venire meno di un punto fondamentale della cooperazione che è rappresentato dall’intergenerazionalità. Un problema, quest’ultimo, che attraversa la nostra intera società ma che, nel caso della cultura cooperativa, rappresenta la sua stessa ragion d’essere: i soci, col passare del tempo, possono anche andarsene ma non per questo finiscono le cooperative se sono incessantemente alimentate da nuove generazioni pronte a sottoscrivere il patto associativo (economia, competenze e soprattutto valori). Per questo il capitale sociale cooperativo, non essendo né predeterminato né soggetto al mercato, è tutt’altra cosa dalle quote azionarie di un’impresa convenzionale: le sue risorse sono, potenzialmente, illimitate. Non male.
Ma l’attività cooperativa, spiega Menzani, sebbene portatrice di caratteristiche che avrebbero dovuto dare alle cooperative l’orgoglio di una forte distintività in anni sempre più poveri di partecipazione, di progettualità comune fra le generazioni, di mutualità, si è rivelata «incapace di costruire un’identità forte e immediatamente riconoscibile».
E potremmo aggiungere, rispetto alle considerazioni dello studioso, anche il modo di comunicare delle imprese cooperative – a cominciare dalla comunicazione organizzativa – non ha cercato di distinguersi dalle altre imprese, impegnandosi sì a comunicare all’esterno una distintività («la Coop sei tu, chi può darti di più?» resta nella storia della pubblicità…pubblicità appunto), ma ignorando totalmente, o quasi, che proprio la peculiarità della sua natura imprenditoriale avrebbe dovuto spingerla a cercare una caratterizzazione nel modo di fare, di offrire comunicazione, differenziandola dalla comunicazione istituzionale e di prodotto delle aziende non cooperative.
Insomma dal volume di Menzani emerge la doppia marcia del movimento cooperativo. Da una parte una storia prestigiosa, iniziata nell’Ottocento, sulla scia dell’esperienza inglese di Rochdale (1844), una storia di ricerca di un modello d’impresa che stesse sul mercato difendendo valori che vedevano i lavoratori e gli utenti legati dalla comune battaglia per una sostenibilità diversa da que a delle imprese convenzionali (anticipazione quasi di quella che oggi definiamo “Corporate social responsability inuncontesto di peerto peereconomy). Una vicenda di lotta sociale, economica e politica: dall’originalità assoluta a livello internazionale della cooperazione bracciantile italiana (a iniziare dalla fine del sec. XIX) al modello della cooperazione sociale (dai primi anni ’70), fino alle recentissime cooperative di comunità (nate per favorire la partecipazione attiva dei cittadini nell’organizzazione dei servizi e nella valorizzazione dei territori), che pongono nuovamente la cultura cooperativa italiana all’avanguardia nel mondo.
Né è da sottovalutare la scelta strategica delle cooperative di investire in educazione, formazione, all’insegna di metodologie che le nuove tecnologie digitali hanno cercato di fare proprie – aldilà degli annunci, con scarsi risultati – e che si riassumono in co-operative learning e knowledge sharing.
Ma c’è anche l’altra storia delle cooperative: quella della difficoltà – con ombre pesanti, vedi le cosiddette cooperative “ibride”, imprese formalmente costituite come cooperative, ma che nei fatti sono tutt’altro – di essere se stesse. Di sviluppare la propria identità storica e sociale, la propria cultura in pratiche dove il fare, al di là di enunciazioni, non finisca con l’omologarsi a quello delle altre imprese. Quasi si trattasse di un imbarazzo circa le ragioni della giovane identità socio-economica del sistema cooperativo. Una rinuncia che trova nel passato e nel presente conferma in molti aspetti del fare impresa cooperativa, ma, a mio parere, soprattutto, nella non risolta questione del rapporto fra dimensione valoriale e dimensione tecnica del fare impresa.
Il che rimanda a un un problema che è più generale: la visione e la missione di un’impresa non sono un bel preambolo destinato però, regolarmente, a scomparire nel confronto quotidiano con le scelte tecniche, gestionali. Il valore d’impresa sta proprio nell’andare oltre l’omologante mito della neutralità della tecnica, dell’organizzazione.
Tito Menzani, Cooperative: persone oltre che imprese, Risultati di ricerca e spunti di riflessione sul movimento cooperativo, Rubbettino, Soveria Mannelli, pagg. 144, Euro 14
di Luca Toschi
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