Autostoppisti, viveur, amanti e mariti cornuti, montanari, ubriaconi, figli orfani, scrittori alla ricerca di ispirazione, bambini bullizzati, detenuti, serial killer, padri, madri, condannati a morte. Sono queste le vite che popolano le storie raccontate da Fabio Andina in Sei tu, Ticino? (Rubbettino). Fragilità umane e psichiche, solitudini dolenti e ordinarietà molli si intrecciano in un breviario di umanità contorta, piegata sui propri giorni, raggomitolata nella tristezza, nell’inquietudine, nella follia e in un tratto criptico di desolazione.
Storie di una frontiera antropologica in stato di abbandono, quasi trascurabili se non custodissero il nucleo centrale delle relazioni umane e della vita: il conflitto dilaniante dell’interiorità, quello suppurante del passaggio terreno alla fine del quale – carverianamente – c’è la morte o, più banalmente, un bel niente. Andina occupa questo spazio stepposo, il non luogo nel quale sembra che non accada granché e lo riempie di tutte le rappresentazioni umane che non vorremmo essere e che inevitabilmente siamo. Racconta le vite minute con la prepotenza di un linguaggio disturbante, scarno di stilemi e gravido di immediatezza, talvolta paratattico, talvolta cinematografico, in ogni caso ruvido come un’asse consumata di carpenteria.
Straccia il formalismo narrativo, gli schemi e gli stilemi che anestetizzano il palato e usa la lingua della strada, degli stadi, del bar (la vera lingua, del resto, quella compresa da tutti) allo scopo di incarnarsi quasi con ferocia dentro esistenze che rotolano ai bordi dell’universo, si arrampicano sopra i picchi delle montagne e da lì osservano un orizzonte indefinito e inarrivabile.
Lì, nelle pieghe dell’umanità meschina e di nessuna importanza, che perde i treni e le occasioni e lo stesso spinge per arrivare a mettere i piedi sotto il tavolo, la sera, si concentra il suo sguardo disincantato, impietoso e teatrale a tracciare una drammaturgia naïf e ipnotica sulla bellezza decadente delle storie comuni.
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