Da Le Cronache del Garantista del 16 dicembre
C’è un gioco intellettuale, un divertissement a cui ci si può sottoporre con qualche costrutto leggendo le pagine del classico Manifesto dei conservatori, pubblicato da Giuseppe Prezzolini nel 1971 su sollecitazione dell’editore Rusconi ed ora riedito dalle Edizioni di Storia e Letteratura con una bella introduzione di Gennaro Sangiuliano (pp. 100, euro 18). Prezzolini (1882-1982) individua infatti, ad un certo punto, 63 “direttive fondamentali” “dei conservatori” e le contrappone alle corrispettive direttive “della sinistra”. Laddove, ad esempio, i primi sono per la “conservazione e la tradizione”, la seconda è per la “novità”; da una parte si vuole “mantenere, trasformando lentamente”; dall’altra, “mutare e radicalmente”; e via elencando e passando dalla concezione generale del mondo alle idee espresse nell’economia e nelle relazioni sociali, nella politica, nella educazione. Perché non provate, punto per punto, a vedere voi da che parte state? A me è capitato di trovarmi dalla parte dei conservatori più o meno tante volte quanto dalla parte della sinistra, e credo senza contraddizione nel disegno d’insieme del mio pensiero.
Già questo dovrebbe far insospettire sul tentativo prezzoliniano di sottrarre la dialettica fra conservazione e progresso alla storia e di elevare i due momenti al di sopra di quello che sono: due parti che si delineano nel gioco politico empirico e che solo in esso conservano una certa fissità (conservatorismo, per lui, «non è semplicemente un partito, è una struttura della mente umana… prima che una dottrina politica, è un sentimento spirituale e una vocazione culturale»). Se il conservatorismo, come d’altronde il progressismo, non può avere, secondo noi, un connotato ontologico, ne consegue che sul terreno della mera realtà empirica lo schema duale assume un valore relativo. È vero, infatti, che Prezzolini ci avverte sul fatto che con la storia cambia il modo di essere conservatori, ma il cambiamento non avviene lungo l’onda dei secoli, come lui sembra credere, ma anche in un periodo breve, fino a far perdere un significato assoluto al termine. Oggi, ad esempio, non è passato nemmeno mezzo secolo da quando Prezzolini scriveva, eppure si può dire che è la sinistra che vuole conservare l’esistente più della destra. Come si può poi dire che lo Stato sia un valore di destra o non piuttosto di sinistra, assumendo spesso dalle sue parti un carattere statalista e antilibertario? E siamo proprio sicuri che l’armonia e l’ordine siano da preferirsi a quel caos creativo che pure dovrebbe ricordare, all’autore di queste pagine, quella competizione che pure ammira? Non è la sinistra che cerca l’armonia e l’ordine di una società perfetta? Quella che qui propongo non è però una diminutio. Restituito alla dimensione empirica, il conservatorismo può essere apprezzato in tutto il suo valore. Che risulta evidente alle persone di solida cultura (non ovviamente ai rappresentanti della “mezza cultura” dominante). Perché costoro sono più attratte e trovano più stimoli e utilità negli autori conservatori che non nei liberal o nei tanti dispensatori di ricette, più o meno a buon mercato, del politicamente corretto? Io credo che dipenda dal fatto che, come osserva a più riprese Prezzolini nel suo Manifesto, i liberal affidano alla teoria il compito di immaginare un mondo giusto e migliore. Una volta immaginatolo, pretendono poi che esso sia realizzato, a prescindere dalla storia e dalle tradizioni sedimentatesi. E anche e soprattutto dai concreti rapporti interindividuali e dalle situazioni reali in cui si è chiamati ad operare. Rispetto a questo razionalismo o illuminismo politico dominante, e che è come un filo rosso che percorre la modernità, quella dei conservatori è una specie di “mossa del cavallo”: un pensiero laterale che ci fa vedere la realtà come di traverso, da una prospettiva meno diretta, e quindi anche più capace di coglierne la complessità. Prezzolini ha poi ragione nel dire che una cosa sono i conservatori, un’altra i reazionari, specificando che i primi non sono aprioristicamente contrari agli obiettivi dei secondi ma solo desiderano che essi emergano gradualmente e si affermino dal basso. I nomi grandissimi di Heidegger (sulla cui interpretazione di essere come stabilità Prezzolini prende una cantonata), Gentile, Junger, ed altri che pure cita Sangiuliano nell’introduzione, c’entrano pertanto poco con l’idea di conservatorismo, il quale, non perché è contrario al razionalismo astratto, si abbandona a misticismi o irrazionalismo. Quanto al liberalismo, che è metapolitico e quindi non identificabile apriori con dottrine di destra o di sinistra, esso ha bisogno del realismo politico e dello storicismo dei conservatori ma ha come valore ultimo l’Individuo (o meglio l’io che è poi un io in relazione) piuttosto che la loro triade concettuale di Dio, Patria e Famiglia. Da questo punto di vista, liberale è Michael Oakeshott, che pure spesso viene inserito fra i conservatori (si veda ad esempio il bel libro di Robert Nisbet, Conservatorismo: sogno e realtà, a cura di Spartaco Pupo, Rubbettino, pagine XL-145, euro 12), la lettura delle cui pagine ci ricorda che un altro carattere connotativo del liberalismo è il mercato. L’atteggiamento nei confronti di esso, una sorta di cartina di tornasole, ci porta a concludere che, se molti conservatori possono essere liberali, non tutti i conservatori lo sono poi effettivamente. Potremmo perciò parlare, per questi ultimi, di conservatori tradizionalisti. Al tradizionalismo appartiene, ad esempio, Marcello Veneziani, che, pur essendo di destra, è particolarmente attivo sul fronte dell’anticapitalismo. Un’ultima notazione: la parte più bella del Manifesto è sicuramente l’ultima, quella in cui, con intuito evividezza di immagini, Prezzolini racconta “Come sono diventato conservatore”. Un documento storico e letterario insieme che da solo merita che questo libro sia letto.
di Corrado Ocone
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di Corrado Ocone