Rousseau era un vero estremista (italiaoggi.it)

di Gianfranco Morra, del 14 Settembre 2017

I dissensi e i conflitti tra filosofi sono una costante di tutti i secoli. Ma nessuno è stato più totale e rivelatore di quello tra due «lumi» del Settecento: il ginevrino Jean-Jacques Rousseau e lo scozzese David Hume. Non era solo un dissenso di idee, ma anche di carattere e stile di vita. Due cose, del resto, che sono sempre interconnesse. Nel 1762 Rousseau aveva pubblicato le sue opere maggiori: il Contratto sociale e l’Emilio. E quest’ultima era stata condannata e bruciata dai cattolici a Parigi e dai protestanti a Ginevra. Per evitare l’arresto dovette fuggire. E tutti gli esponenti dell’illuminismo, contrari ad ogni censura, furono dalla sua parte e gli proposero di trasferirsi in una città libera. Nel 1765 Hume si trovava a Parigi, come segretario d’ambasciata. E fece l’atto generoso: vieni in Inghilterra, fece sapere a Rousseau, ti troverò io un asilo dove potrai vivere e pensare. Rousseau passò dunque la Manica, ma la convivenza tra i due finì dopo pochi mesi. Cos’era successo? Hume lo raccontò in un breve scritto, che gli fu sollecitato da uno dei fondatori della grande Encyclopédie, il d’Alembert. Ora questo «concise account», accompagnato dalle lettere tra i due, viene per la prima volta tradotto in italiano, a cura di Lorenzo Infantino, professore alla Luiss nel solco di Dario Antiseri: A proposito di Rousseau (Rubbettino, pagg. 140, euro 12). I due erano diversissimi e lo sapevano. Loro stessi si erano fatti il selfie: «Sono di temperamento mite, padrone del mio carattere, di umore aperto, socievole e brioso, capace di affetto, poco sensibile all’inimicizia e di grande moderazione in tutte le passioni» (Hume). Non così Rousseau: «Sento il mio cuore e conosco i miei grandi difetti e vizi. Non sono fatto come nessuno degli uomini che ho conosciuto e credo, tutto sommato, di essere il migliore degli uomini». Dunque un Superuomo del Settecento? Era proprio così, ma la cosa più importante è un’altra: la totale inconciliabilità tra il realismo un po’ scettico del primo e l’utopismo fanatico del secondo. Hume non poteva che sorridere di fronte alle proposte di Rousseau: Lo stato di natura? non c’è mai stato, l’uomo è sociale prima di essere umano. La proprietà? è strumento di progresso, non va condannata ma regolamentata. La volontà generale? pericolosissima in quanto annulla la volontà dei singoli. La democrazia diretta? un inganno, non può essere che indiretta e rappresentativa. Il modello di società di Hume è quello ateniese del dubbio socratico, quello di Rousseau è il collettivismo spartano. Il conflitto tra i due esprime qualcosa di più: le due possibilità antitetiche dell’illuminismo, quella moderata di Voltaire, Turgot e d’Alembert, e quella radicale di Diderot, d’Holbach e Helvetius. Che si tradurranno, durante la Grande Rivoluzione, in due opposti progetti politici: quello costituzionalista di Montesquieu (tanto ammirato da Hume) nella prima parte girondina, e quello totalitario di Rousseau (per opera del suo discepolo Robespierre) nella seconda parte giacobina. Rousseau voleva fare piazza pulita di tutto (come poi accadde) e ricominciare da zero, per «redimere» la società dal male e creare il «regno della virtù». Hume proponeva la via delle riforme. Di tutto ciò lo scozzese non tardò a rendersi conto. Col consueto linguaggio moderato egli critica i difetti di Rousseau: «un piccolo ciarlatano che ostenta miseria estrema per suscitare commiserazione; capriccioso ed eccentrico, nato per il tumulto e le tempeste». Hume non parla della disinvoltura morale di Jean-Jacques che altri illuministi avevano rivelato: si faceva mantenere dalle donne, prima Madame de Warens (la mia «mammina»), poi da una femme des chambres, Thérèse Levasseur, dalla quale ebbe cinque figli, che finirono tutti agli Enfants-Trouvés: «Non sono un padre snaturato. Affidando i miei figli alla pubblica educazione, non potendoli allevare io stesso, ho compiuto un atto di cittadino e di padre». L’affaire Hume-Rousseau non è solo una noterella nel manuale di storia della filosofia. È un conflitto insanabile tra due concezioni della democrazia, quella diretta e quella rappresentativa, Che ora riemerge nel conflitto tra il Movimento di Grillo-Casaleggio e i partiti tradizionali, nel momento in cui la crisi della democrazia rappresentativa ha stimolato la nascita di una forte antipolitica e di tendenze populistiche contestative. In questo senso Casaleggio, tutto teso alla creazione di una democrazia popolare diretta per mezzo del web, giustamente ha chiamato la sua piattaforma «Rousseau», visto che il Ginevrino rifiutava il sistema elettivo dei rappresentanti del popolo: «Il popolo inglese crede di essere libero, ma sbaglia di grosso, i deputati del popolo non possono essere i suoi rappresentanti: nella antiche repubbliche mai il popolo ha avuto rappresentanti e la stessa parola è ignorata» (Contratto sociale). Quella di Rousseau è una democrazia totalitaria, come ha capito il teorico del liberalismo Benjamin Constant: «L’azione compiuta nel nome di tutti è necessariamente, piaccia o non piaccia, l’azione di un singolo individuo o di pochi individui e ciascuno, quando si sottomette a tutti, in realtà si sottomette a coloro che agiscono nel nome di tutti» (Princìpi di politica). Una affermazione che vale per il filosofo Rousseau, ma ci mette in guardia anche contro i pericoli della piattaforma Rousseau. Che, fra l’altro, fa acqua da tutte le parti.

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