Da Domenica (Il Sole 24 Ore) del 5 giugno
Gran fautore del ruolo della borghesia nella vicenda del Risorgimento, Camillo Benso di Cavour finì però per volere a tutti i costi come nuova capitale proprio una città del tutto priva di borghesia, convinto com’era che solo in Roma concorressero «tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali che devono farne la naturale capitale di un grande Stato».
Nel 1870, l’anno della conquista piemontese, di borghesia a Roma non c’era traccia. La città, che con 200 mila censiti risultava meno popolosa anche di Genova, era abitata soltanto da ecclesiastici, aristocratici e popolo minuto. Niente a che vedere con i grandi centri del Nord, ma anche con Firenze, Bologna o Napoli, dove invece una borghesia dell’imprenditoria e delle professioni era già diffusa, e influente. Quando poi a Roma un ceto che in qualche modo si poteva definire borghese iniziò a svilupparsi, esso apparve subito di un tipo particolare: in parte costituito da dipendenti ministeriali, e in parte da speculatori che si arricchivano con le edificazioni dei nuovi quartieri e, comunque, trafficando con il potere politico. Insomma, tutto il contrario di quel ceto colto, cosmopolita, propenso al rischio e cosciente dell’importanza anche economica del rispetto delle regole che ha innervato lo sviluppo dell’Occidente moderno.
Tale debolezza strutturale della città è considerata da molti osservatori (e anche da chi scrive) come la principale ragione delle sue disgrazie. In questo filone interpretativo si inserisce il giornalista Mario Ajello, firma storica del «Messaggero», autore di Disastro Capitale, miscellanea di bozzetti sui tanti problemi della metropoli, scritti nel suo stile, che è ironico, divertito, paradossale, a volte anche surreale. Il sottotitolo, Roma al bivio, allude alle elezioni comunali di oggi, anticipate per la prematura interruzione dell’amministrazione di Ignazio Marino, con il quale Ajello (come del resto ha incessantemente fatto anche il suo giornale) è sempre stato estremamente critico.
La tesi del libro è che la spinta propulsiva dei partiti tradizionali può dirsi, almeno a Roma, del tutto esaurita, essendosi essi ormai trasformati – a destra come a sinistra – in macchine esclusivamente clientelari, con addentellati persino nel mondo della criminalità. E che quindi il voto di oggi sarà fondamentale per capire se i capibastone dei partiti conservano nonostante tutto la loro presa sull’elettorato oppure se potrà finalmente farsi largo, «il nuovo protagonismo di una borghesia cosciente che a Roma è sempre mancata».
In attesa di capirlo, ci si può divertire (sebbene si tratti di uno svago piuttosto amaro e qualche volta anche ai limiti dell’autodenigrazione) con la prosa di Ajello. Nel volume vengono passati in rassegna tutti i guai capitolini: l’accidia dei vigili urbani, il dilagare di ogni forma di abusivismo, l’inefficienza dei pubblici servizi, a cominciare dal trasporto e dalla raccolta dei rifiuti, l’esagerato livello della tassazione locale, l’anglofilia e il provincialismo (sacrosante le pagine sulle esagerate misure di sicurezza in occasione delle visite di esponenti politici Usa, anche quando devono andare a mangiare la pasta in trattoria) e infine le famigerate buche, della cui vasta tipologia viene compilato un vasto ed esilarante catalogo. Concluso con la semiseria esortazione a ogni romano ad adottare una buca, meglio se nei pressi della propria abitazione, per denunciarne la presenza sui social e – se pure questo non dovesse bastare – per provvederne personalmente alla chiusura. Seguendo l’esempio di Cristiano Davoli, commerciante del quartiere Prati, che si presenta a richiesta armato di pala e bitume.
Scherzi a parte,la radice di ogni degenerazione, a ben guardare, è sempre la stessa. A Roma i cittadini si lamentano, protestano, ma poi per lo più stanno a guardare. Forse per l’antica abitudine a vivere ben riparati all’ombra del Potere, e forse anche per la convinzione che la preziosità della città farà sì che vi sarà sempre chi in un modo o nell’altro se ne prenderà cura. Mentre – sostiene Ajello – sarebbe ora che anche qui si sperimentasse quella Big Society lanciata dai conservatori britannici, per cui – dinanzi al massiccio coinvolgimento dei privati anzitutto nella gestione dei servizi – la politica inizi a ritirarsi dagli ambiti che non gli sono propri.
di Stefano Brusadelli
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